49

Alle otto del mattino seguente, Kate stava chiamando la figlia per la terza volta. «Maisie? Vieni giù. Subito, per favore.» A metà di quella frase, in cima alle scale si era affacciato Julian, che era subito scomparso. Esasperata, Kate tornò in cucina.

Kevin era a tavola, con un’aria stanca e irritabile. «Quel tuo maledetto studente ha fatto su e giù per le scale cinquanta volte, stanotte. Ha fatto il rumore di una mandria di gnu. In teoria io sarei qui per riposarmi e riprendermi.»

In piedi accanto al tavolo, già vestita e pronta per il lavoro, con la testa che le pulsava, Kate diede una fetta di pane imburrato a Maisie, che finalmente era scesa. «E dopo i cereali. Molto latte.» Ignorò la figlia che alzava gli occhi al cielo, poi si rivolse all’ex marito. «Se questa casa non è all’altezza dei tuoi bisogni, sentiti libero di andartene.» Sai come si fa. L’hai già fatto in passato.

«Mamma. Non essere così meschina con papà. Non sta bene.» Sentendo quel che Kate borbottò in risposta, Maisie gesticolò con il pane che aveva in mano. «Ti ho sentita. Hai detto “Col cazzo”. Quando l’ho detto io, quella volta, ti sei incavol…»

Kate si mise una mano sulla fronte. «Taci, Maisie, per carità divina. Non l’hai ancora scampata, fidati.»

Kevin guardò prima l’una, poi l’altra. «Che cosa ha fatto?» Kate ignorò la domanda. Non aveva nessuna intenzione di dirgli di quando Maisie era stata prelevata al Woodgate Park dai suoi colleghi della polizia, e non voleva dirgli neanche del furto.

Il campanello suonò e Maisie schizzò verso l’ingresso, afferrando la cartella con i libri. «Questa è Chel.»

«Maisie?»

«Che?»

«A casa massimo per le quattro e un quarto. Non perdere l’autobus.»

Tirandosi su i calzettoni e scrollando la testa con la bocca spalancata come faceva sempre per infastidire Kate, Maisie aprì la porta d’ingresso e scomparve per raggiungere Chelsey e la madre.

Kevin guardò Kate ritornare in cucina. «Maisie sta sfuggendo al tuo controllo, se ciò a cui ho assistito è la norma: tu che sbraiti e lei che ti risponde a tono.»

«Kevin? Taci.»

«Sai qual è il tuo problema?» disse lui. «Fai troppe cose non necessarie. Hai l’università. Perché non ti concentri su quella? Perché sei così determinata a farti coinvolgere in questa… questa unità di polizia?»

Kate si voltò verso di lui. «È l’Unità delitti insoluti.» Lo scrutò. «A te non frega proprio niente, vero, che i criminali non paghino per i loro delitti, che le vittime non ottengano giustizia?»

Lui lasciò cadere la testa all’indietro. «Ancora questa roba. No, non me ne frega niente, perché io sono parte del sistema e lo capisco. Sai dov’è che sbagli?» Kate chiuse gli occhi. «Tu sei un’accademica che cerca di giocare a fare la detective. Non funziona. Fa’ quello che sai fare.»

«Io so che il sistema non è corretto e nega alle persone il…»

«La maggior parte delle persone ottiene giustizia!» sbottò lui. «Non ti basta?» Kevin rimase solo in cucina, a sentir rimbombare il suono della porta che sbatteva.

Due ore dopo, terminata la lezione del mattino, Kate era nel suo ufficio all’università, lo sguardo perso. I suoi occhi caddero su un messaggio telefonico di Bernie, delle otto e quarantacinque di quella mattina: Niente di particolarmente interessante nelle dichiarazioni. Contattati Buchanan e Johnson. Idem. Ronnie Dixon in custodia al carcere di Birmingham e Ken da lui stamattina. Kate rilesse le ultime parole e aggrottò la fronte. Ken era l’esperto di identikit dei Piani Alti. Bernie aveva organizzato una visita a Dixon in modo da chiedergli dell’uomo con gli occhiali alla Harry Potter che diceva di aver visto al parco l’anno precedente. Tuttavia, per quanto il software di ricostruzione facciale potesse essere straordinario, ricreare accuratamente i lineamenti di qualcuno che era stato visto fugacemente parecchi mesi prima sarebbe stata un’impresa notevole per la memoria di Dixon. E se anche ci fosse riuscito, che possibilità c’erano che l’uomo descritto venisse identificato e arrestato? In particolar modo se non aveva precedenti. Kate fu strappata dalle sue fantasticherie quando si aprì la porta dell’ufficio. «Ciao, Crystal.»

Kate la osservò posare una tazza sulla scrivania. «Beva» disse Crystal guardandola dall’alto. Kate prese la tazza, bevve un sorso di tè e si appoggiò allo schienale della sedia. «Come sta?»

Sollevò gli occhi sulla giovane segretaria. «Ieri sera…»

«Il sergente Watts ha chiamato stamattina per dirmi che cosa era successo.»

Kate sospirò. Non avrebbe più potuto rifilarle la versione della storia che aveva preparato. «Avevo formulato un giudizio su qualcuno. Ora mi rendo conto che in parte avevo ragione, ma che mi sono anche sbagliata di grosso.»

«Capita a tutti» disse Crystal. «Sa una cosa? Io se ho ragione anche solo un pochino non ci penso più e basta. Posso portarle qualcos’altro?»

«No, grazie.»

Crystal uscì e Kate rimase seduta, soffocando uno sbadiglio, poi fece per prendere le tesine che aveva sulla scrivania. Quando mai è servito a qualcosa continuare a rimuginare sul passato?

Dopo un po’, Kate mise da parte i fogli, ripensando a ciò che aveva detto Connie: l’impiccagione di Henry Levitte era un sotterfugio per nascondere il fatto che fosse stato strangolato. Kate si appoggiò allo schienale. Chi poteva avere quel genere di motivazione? Nascondere Troy. Nascondere un omicidio con un’impiccagione… Voglio vedere le dichiarazioni di Buchanan e di Johnson, anche se sono brevissime.

Fissò gli alberi spogli del campus. Henry Levitte aveva esercitato un certo potere in famiglia. Potere. Che cos’altro permette di fare il potere? Pensò alla carriera fortunata di Buchanan e all’ascesa verticale di Johnson nel corpo docenti del Woolner. Il potere si accompagna alla prodigalità. Aggrottò la fronte. Tutto ciò che era venuta a sapere su Levitte, fino ad allora, faceva di lui un maniaco sessuale. Non un assassino.

Pensò a Cassandra. Era ancora in pericolo, ora che il padre era morto? E Stuart Butts? Abbassò lo sguardo sui nomi. Cassandra e Roderick. Nathan e Bradley. Tutte vittime. Aggiunse il nome di Joel Smythe, convinta che appartenesse a quel lugubre elenco. Prese il telefono e compose il numero di John Wellan. Lui rispose quasi subito. «Conosce qualcuno del personale del Woolner che potrebbe aver mantenuto i contatti con Joel Smythe dopo la fine degli studi?»

«Molto improbabile, direi, e che cosa c’entra… Non importa, preferisco non saperlo. Anche se ritenessi che valesse la pena di fare qualche domanda su Smythe, non potrei. Qui non c’è praticamente nessuno. Hanno cancellato le lezioni in segno di rispetto.»

Kate chiuse gli occhi. «Non ci avevo pensato. Lasci stare, okay?»

Posò il ricevitore e si alzò. Doveva uscire dall’ufficio. In ogni caso, c’era qualcosa che doveva fare a Rose Road. Con la borsa in mano, andò alla porta, si infilò il cappotto e se ne andò dicendo: «Crystal? Torno più tardi».

Percorse il corridoio verso l’ufficio di Furman per fargli il suo resoconto degli avvenimenti della serata precedente. Si stava avvicinando, ma rallentò. Si sentivano delle voci oltre la porta mezza aperta. Una era quella di Gander. «Roger, sono tutte cose che hai già detto prima…»

Ed ecco che arrivò la voce di Furman. «Sì, prima di quest’ultimo disastro. Io ero contro tutta questa storia sin dall’inizio, ma lei è stata inflessibile… E ha sbagliato. Non è la prima volta. Non capisce come si lavora in polizia. È una mina vagante, è impulsiva e non ascolta le indicazioni.»

«È altamente qualificata.»

«E allora? Questo non cambia ciò che ho appena detto. L’interfaccia tra polizia e psicologia non sta funzionando. Watts la trova complicata, inoltre io non mi fido di quello studente che usa il nostro sistema informatico.»

«Sia il vicepreside dell’università che Kate supervisionano il giovane Devenish» rispose Gander con voce stanca.

Kate sentì un grugnito di derisione. «Ma lei è dannosa quanto lui! Per quella le regole sono lì solo per essere trasgredite. E adesso dobbiamo aspettare di scoprire quali saranno le conseguenze dopo ieri notte. I Levitte avranno chiamato i loro avvocati…»

Kate parlò, guardando la porta. «Sono preoccupata per la sicurezza di Cassandra Levitte e voglio che la Hawthornes sia sorvegliata per assicurarci che non ne esca a nostra insaputa.»

Guardò Furman che si lasciava cadere sulla sedia con una mano sugli occhi, mentre Gander le si avvicinava. «Non possiamo farlo, Kate.»

Kate stava attraversando il parcheggio, con le parole e il viso compassionevole di Gander ancora impressi nella mente. Non si poteva far sorvegliare Cassandra per mancanza di personale e di prove che ne indicassero la necessità: la signorina Levitte era già seguita da professionisti. Kate gettò la borsa sul sedile e salì in macchina. Henry Levitte era morto, ma proiettava ancora una lunga ombra. Ora sapevano molto della sua vita. C’era altro da sapere? Scuotendo la testa avviò il motore, ripensando al giorno in cui lei e Bernie gli avevano fatto visita nella villa di Hyde Road. Ripensò alla conversazione e a quando aveva fatto riferimento a un luogo in particolare. Una chiesa.

Niente di umano
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