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Alle nove del mattino seguente, Whittaker accompagnò Buchanan nella sala interrogatori, dove lo attendevano Kate e Bernie. Quando Buchanan vide Kate si bloccò di colpo. Bernie si alzò e gli indicò una sedia. «Grazie per essere venuto, signor Buchanan. Si sieda. Spero che non si sia disturbato troppo.»
«Gliel’ho detto al telefono: mi tornava comodo per l’orario della mia riunione, più tardi, e per questa.» Infilò una mano nel pesante cappotto di cammello e ne estrasse una busta. «Questa voglio sia consegnata all’agente più alto in grado.»
«Sono io. Detective sergente Watts.» Bernie tese una mano. Dopo aver esitato un poco, Buchanan gliela diede. «Bene, signor Buchanan. Andiamo subito al motivo per cui le abbiamo chiesto di venire qui. Il tredici novembre del 1993…» La porta si spalancò. «Ah, conosce già il tenente Corrigan?»
Buchanan sollevò lo sguardo e annuì, mentre Joe si metteva a sedere. «Che cos’è questa storia? L’altro giorno vi ho già detto tutto quello che so. Non posso aiutarvi.»
«Potrebbe, se si concentrasse su qualcosa che ha detto alla polizia nel 1993.»
Lo sguardo di Buchanan passò dall’uno all’altro. «Non dice sul serio, vero?»
«Oh, certo che sì.» Bernie diede un’occhiata alle poche parole scritte sul foglio che aveva davanti a sé. «Lei disse: “Alle dieci del mattino del tredici novembre me ne stavo andando dal Woolner e ho visto Nathan Troy allontanarsi verso Linden Road”.»
«Ricordo vagamente di aver detto qualcosa del genere. E allora?»
«Conferma questa dichiarazione?»
Buchanan li guardò tutti e Kate vide vacillare il suo sguardo. «Se è così che ho detto… Sì… confermo. Stavo facendo del mio meglio per aiutare la polizia…» La sua voce si affievolì e poi, dopo un attimo di silenzio in cui apparve teso, disse: «L’opinione che ho espresso a quel tempo potrebbe essere stata…».
Gli occhi di Bernie tornarono sulla dichiarazione. «Lei confermò agli agenti che “la visibilità era buona” e identificò con certezza l’individuo che aveva visto come Nathan Troy.»
L’atmosfera della stanza si era fatta carica di attesa. Il viso di Buchanan si incupì. «Mi sento molto a disagio. Se questo è un esempio di ciò che accade quando la gente cerca di aiutare la polizia… Sono passati degli anni.» Kate lo stava osservando e notò le braccia strette intorno alle spalle, la tensione dipinta sul viso. Considerato che Buchanan stava pensando di querelarla, aveva acconsentito a non partecipare attivamente alla conversazione, ma aveva voluto essere presente come osservatrice per esaminare le sue reazioni. «Avevo solo diciannove anni quando ho rilasciato quella dichiarazione. Perché mi state facendo il terzo grado?»
«Non è un terzo grado, signore» disse Joe, calmo. «Abbiamo bisogno di collaborazione e lei ha accettato di collaborare.»
Buchanan gli lanciò un’occhiata rabbiosa e si alzò. «Me ne vado.»
Si alzò anche Joe, che lo superava di un bel pezzo in statura. Kate lesse il disagio sul viso di Buchanan. Fu Joe a parlare: «E cosa mi risponderebbe se le dicessi che il tredici novembre, quando lei sostiene di aver visto Nathan Troy, abbiamo ragione di credere che fosse già in pericolo di vita, o molto probabilmente, già morto?»
Kate osservò Buchanan ascoltare quelle parole pronunciate a voce bassa e sbiancare come un cencio. Allentò il colletto del cappotto con uno strattone e poi raddrizzò le spalle. «Va bene, una ventina d’anni fa mi sarò sbagliato. Quindi? Non so altro» sbottò. Andò alla porta, poi, voltandosi, indicò la busta con il dito. «Quel che importa invece è quella lettera. Mi aspetto una risposta.»
Bernie lo seguì, mettendo una mano sulla porta per fermarlo. «Ancora una cosa, prima che vada. Ci parli di Cassandra Levitte.»
«Che cosa? Senta, guardi, ora…» diede in escandescenze.
«Voi due avete mai avuto una relazione?» Il viso di Buchanan era furibondo, ma rimase in silenzio. «Non ha niente da dire, signor Buchanan? Non importa. Più tardi, quando incontreremo il padre di Cassandra, lo chiederemo direttamente a lui.» Buchanan lo guardò in cagnesco, poi si voltò e scomparve oltre la porta.
Bernie tornò al tavolo. «Nervoso, eh?» Raccolse la busta consegnata da Buchanan, agitandola in direzione di Kate. «È un viscido bastardo che fa quello che fanno i viscidi bastardi quando si sentono minacciati: o non dicono niente o attaccano a loro volta.»
«Che cosa direbbe la maggior parte della gente nella sua situazione, in risposta a domande su ciò che hanno detto alla polizia anni prima?» rifletté Joe. «“Mi dispiace, devo essermi sbagliato”?»
«Oppure variazioni su… Bernie! Che cosa stai facendo?» Inorridita, Kate guardò Bernie aprire la busta. «Non puoi farlo. È un reclamo ufficiale.»
«Piantala di agitarti. Non ci ha messo il nome di un agente in particolare.» Bernie scorse la lettera, poi sollevò lo sguardo verso Kate e le rivolse un gran sorriso. «Perbacco! Non gli piaci proprio per niente, eh?»
Lasciò cadere la lettera sul tavolo, dove lei e Joe gli diedero un’occhiata. «“Sprezzante e aggressiva”!» Kate era furibonda.
«Non prendertela, Doc. Se ti conoscesse meglio, si renderebbe conto che in realtà sei molto peggio.»
«Ehi, Rossa!»
Kate stava chiudendo a chiave la macchina quando, voltandosi, si trovò Joe davanti. «Che cosa ci fai qui?» Gli sorrise, felice di vederlo.
«Ho pensato di fare un giro. Incontrare l’artista, vedere la sua opera.»
Si misero a camminare l’uno accanto all’altra. «Dov’è Bernie? Eravamo d’accordo di incontrarci alla galleria.»
«L’ho lasciato lì e sono venuto a parcheggiare.»
«Qualcuno è riuscito a mettersi in contatto con Stuart Butts?»
Joe scosse la testa. «Stando ai Piani Alti, la sua famiglia continua a dire che lo stanno ospitando degli amici. In centrale hanno in programma di mandare in giro un paio di agenti a controllare la zona dove vive.»
Kate annuì, sentendo salire la tensione. «L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è che diventi un’altra vittima.»
Uscirono dal parcheggio di Brindleyplace. Davanti a loro gli interni spogli della White Box Gallery, visibili dalle pareti a vetrata, spiccavano in mezzo ai toni smorzati degli uffici e dei ristoranti nella luce triste di quel pomeriggio. Kate sollevò gli occhi verso Joe. «Un altro posticino snob?» domandò.
«Innegabilmente. Ma da qui non vedo molte opere d’arte.»
Kate ebbe un pensiero improvviso. «Bernie ti ha detto che ho gli appunti di John Wellan sui suoi incontri con Troy?»
«Sì. Niente di interessante?»
«Confermano ciò che ci aveva già detto e dicono anche che per l’anno nuovo Troy aveva progetti che avrebbero potuto allontanarlo dal college. Lasciando stare il problema dell’affidabilità della testimonianza oculare di Buchanan, per quel che ne sappiamo è anche possibile che Troy avesse in mente di lasciare il Woolner.» Aggrottò la fronte. «Ma non è andato lontano.»
Avevano raggiunto le porte a vetri, dove due uomini in tuta da lavoro si spostarono per farli entrare. Salutandoli, Kate si accorse di averli già visti. A Margaret Street, quando aveva incontrato Roderick Levitte. «Salve, Stan!»
L’uomo si voltò, sorpreso. «Ancora lei!» Guardò Kate e poi Joe. «Allora è la polizia che sta aiutando?»
Kate annuì. «Sa se c’è già qualcuno dentro?»
Stan abbassò la voce. «Non l’idiota che ha visto l’altro giorno, ma il vecchio sì.» Indicò l’interno della galleria. «Su per quelle scale.»
«Grazie.» Poi Kate pensò e chiese: «Nessun altro?».
«C’è un tizio alto e grosso lì nella saletta, che sta guardando un po’ della roba già esposta.» Con un cenno di saluto lui e il collega si allontanarono. Joe mostrò il distintivo alla guardia di sicurezza in uniforme che era arrivata nel corso della conversazione.
Entrati nella galleria, attraversarono l’ampio pianterreno. «Ho già suggerito a Bernie che dovrei parlare prima io con Henry Levitte» disse Kate. «Visto che ci conosciamo di vista, potrebbe darci spontaneamente informazioni più dettagliate.»
«Mi pare che abbia senso. Vado a vedere che cosa sta combinando Bernie. Sembra che si stia appassionando all’arte.» Si incamminò verso la stanza indicata da Stan, mentre Kate si avviò su per le scale.
Quando raggiunse il primo piano, la sua attenzione fu catturata dall’enorme soffitto a volta in vetro, sotto al quale serpeggiava una stretta passerella protetta da una ringhiera di metallo. Procedette in avanti, fissando la luce fredda e grigia sopra di sé.
«Buon pomeriggio, Kate.»
Si voltò di scatto, sorpresa dalla voce morbida che arrivava da qualche parte alle sue spalle. Henry Levitte era seduto su una sedia di tela, quasi nascosto da un quadro enorme. Quando si alzò, Kate vide che indossava un grembiule da pittore di quelli di una volta, sotto si notavano pantaloni gessati ed eleganti scarpe di cuoio. «Perdonami se ti ho spaventata, cara.» Fu subito al suo fianco, posandole una mano sull’avambraccio, fissandola con viso bonario e la bocca distesa in un sorriso.
Kate ricambiò il sorriso. «Non ce n’è bisogno. Ero talmente colpita dalla luce che non ho notato nient’altro.»
La mano le lasciò l’avambraccio e Levitte tornò a sedersi, raccogliendo i pennelli. «È impressionante, vero? Anche in una giornata grigia come questa. Vengo a lavorare qui tutte le volte che posso.»
«Le dispiace se guardo?» Kate si mise dietro di lui per esaminare un nudo androgino, il viso visto di lato ancora abbozzato ma già affascinante.
Sembrava stesse dipingendo a memoria. «Non le serve la modella per finire?»
L’uomo rise piano. «No, mia cara. Non in questa fase avanzata.» Sollevò lo sguardo su di lei, poi guardò oltre. «Considerando che la galleria è chiusa al pubblico, immagino che tu non sia sola e che quello sia un tuo collega?»
Kate si voltò e vide che Joe era salito a sua volta e stava osservando alcuni quadri appesi a poca distanza da lì. Si voltò di nuovo, annuendo. «Quello è il tenente Corrigan. Glielo present…»
L’uomo scosse brevemente la testa. «Preferirei davvero di no. Ah… pare che abbia altro da fare.» Alcune voci salirono dal pianterreno e Kate e Levitte videro Joe sparire giù per le scale.
Allarmata dal tono stanco della voce di Henry Levitte, Kate abbassò gli occhi sul suo viso. In quel momento si accorse delle profonde occhiaie, della luce spenta negli occhi infossati. Sembrava esausto. Pensò alla retrospettiva imminente. Doveva essere uno sforzo fisico ed emotivo considerevole per un uomo della sua età. «Sta bene? Posso fare qualcosa?»
«Sono estremamente stanco. In effetti non mi sento benissimo. Mi metto a sedere lì per qualche minuto, se non ti dispiace.» Non sapendo se dovesse offrirsi di aiutarlo, Kate lo guardò alzarsi un po’ tremante dalla sedia e poi camminare con passo malfermo verso un grande divano rosso poco distante. Kate si rese conto che su quel piano non c’era veramente nessuno, oltre a loro. Se si sente male dovrò avvisare qualcuno.
«Kate, ti prego… siediti.» Agitando una mano in direzione del divano, il grembiule floscio sulle spalle cascanti, l’uomo procedette lento verso un piccolo frigorifero lì accanto e prese due lattine. «Quassù ci sono solo queste, temo.» Kate osservò le lattine. Probabilmente l’alcol era l’ultima cosa di cui Levitte aveva bisogno.
Sbirciò nel frigo. «Che ne direbbe di un po’ d’acqua? Lì, sul ripiano in basso.» L’uomo rimise a posto le lattine e prese una bottiglia, che le mise in mano. Lei sollevò lo sguardo su di lui. Aveva un aspetto orribile. «Professor Levitte, se non si sente in grado di parlare con me oggi, possiamo prendere un altro appuntamento. A dire il vero credo che dovrei…» Fece per alzarsi.
Levitte le si avvicinò mettendosi un dito sulle labbra. Poi, voltandosi pesantemente, si lasciò cadere sul divano. Si accasciò prima che Kate potesse spostarsi, trovandoselo così vicino da percepire il calore che emanava.
Kate si chinò in avanti. «Adesso scendo. Chiedo a qualcuno di salire e…»
«No, no. Ti prego. Comincia pure con le domande.» La voce tremò debolmente. «Fa’ la brava… aiutami a distrarmi dalla fragilità della vecchiaia.»
Ancora preoccupata, Kate lo scrutò di nuovo. Nel corso della prima visita a casa Levitte si era fatta l’idea che fosse un uomo superbo e piuttosto vanitoso. Le vennero in mente le parole di John Wellan. Vecchio stronzo. Se avesse insistito nel cercare aiuto forse lo avrebbe fatto agitare. Si rimise a sedere e si preparò a cominciare. «Se ne è sicuro…» In risposta giunse il debole cenno di una mano. «Quando siamo venuti da lei l’altra…»
La testa si rovesciò all’indietro, l’intero corpo dell’uomo si lasciò andare. «Vuoi parlare di mia figlia Cassandra.» Kate sentì un sospiro profondo, straziante. «Quando l’avete vista era sovraeccitata, adesso è crollata. Sta molto male. Vediamo come va giorno per giorno. È come sua madre, la mia prima moglie. Era canadese, sai. Non si era mai trovata davvero a suo agio qui.» Sprofondò in un silenzio pesante, troppo vicino perché Kate riuscisse a vederlo in viso.
Kate addolcì la voce. «Professor Levitte, a un certo punto dovremo parlare con Cassandra, perché era amica di Nathan Troy.»
L’uomo sollevò la testa. «La tua vita ti soddisfa, mia cara?» Lei lo guardò, confusa. «So che sei divorziata, ma penso che tu sia una ragazza coraggiosa e audace. Vivi la tua vita per realizzare ciò che sogni per tua figlia?» Kate non rispose, sempre più confusa da quella svolta così personale. «I miei figli sono molto speciali per me, soprattutto Cassandra. Ho dovuto prendermene cura, sai. La loro madre era totalmente incapace di farlo. Cassandra era la più bisognosa. Veniva sempre a cercarmi. Era la mia bambina speciale. La consideravo una compagna, più che una figlia. Vedere come sta ora mi spezza il cuore.» Turbata da quelle parole, Kate temeva che Levitte stesse per scoppiare a piangere. «Era la mia delizia. Cioè, finché non entrò in età adolescenziale. Tua figlia deve esserci vicina, no? Preparati a sbalzi d’umore, rabbia, risentimento, testardaggine. Il nostro rapporto, mio e di Cassandra, cambiò. Lei divenne… ingestibile. Da allora non è più stata la stessa.» Fece un sospiro rumoroso.
Kate cercò di dirgli qualcosa di rassicurante. «Indubbiamente tutto ciò che ha appena detto, l’umore, la testardaggine… fanno parte del naturale svil…»
«Oh, Kate, ma che cosa vuol dire “naturale”?» Lei rimase sbigottita dalla veemenza improvvisa e inaspettata di quelle parole. «Io sono della vecchia scuola e non me ne vergogno. Ho sempre saputo di che cosa avesse bisogno Cassandra e mi sono sempre adoperato affinché lo avesse, ma la sua rabbia si è messa tra noi e ora non posso più farlo.» Kate si sforzò di guardarlo di sottecchi per capire come si sentisse, consapevole del fatto che non stesse ancora bene. Avrebbe dovuto lasciarlo per andare a chiamare… «Kate, mia cara, non ci conosciamo bene, ma con te sento di poter parlare di esperienze dolorose come questa.» L’uomo parve calmarsi, e di nuovo lei percepì il calore che proveniva dal suo corpo. «Mi sento di nuovo stanchissimo.» Sentendoselo pesare addosso, Kate prese la decisione che avrebbe dovuto prendere alcuni minuti prima. Gli serve un medico. Va’ giù e di’ a Joe e Bernie di chiamare aiuto. Muovendo impercettibilmente le gambe, in modo da non disturbarlo, Kate si spostò di lato e poi in avanti, verso il bordo del divano. Quando erano stati a casa sua aveva visto quanto fosse invecchiato. Non avrebbe dovuto dar retta alle sue proteste. Avrebbe dovuto chiamare qualcuno non appena…
All’improvviso due mani forti arrivarono da dietro e le afferrarono i seni, poi scivolarono giù, stringendola vigorosamente alla vita. Paralizzata dallo shock, Kate sentì una delle mani scivolare in basso, verso la sua coscia, per poi stringerla. Forte. Si gettò in avanti, agitando le mani e le braccia, i capelli che le svolazzavano intorno al viso diventato bollente e furibondo. «Non… Come… Basta!»
Le parole angosciate di Kate furono interrotte dal ticchettio di un paio di tacchi e da una voce stridente, con l’accento del Nord. «Ma che cosa state combinando voi due?» Un paio di metri dietro al divano c’era Theda Levitte, con gli occhi che le brillavano.
Disorientata, sentendosi avvampare, Kate fissò il viso massiccio della donna, consapevole che si stavano avvicinando anche i suoi colleghi. «Pensavo… che stesse… male.»
Gli occhi di Theda Levitte la stavano fissando, la bocca rossa serrata. «A dire il vero è lei che ha un’aria piuttosto strana.»
Con una successione di movimenti agili, Henry Levitte si alzò dal divano, si tolse il grembiule, si sistemò il completo elegante e poi si lisciò i capelli con le mani. «Theda, cara! Che bello vederti.» Dritto come un giunco, guardò l’orologio e poi la moglie. «E che tempismo perfetto. Andiamo a pranzo. Dove preferiresti andare? Da Cielo? Da Edmunds? O magari allo Shogun? Scegli tu. Ah, ed ecco il sergente e il tenente.» Tese con decisione la mano a Joe, mentre Kate, ammutolita, rimase a guardare, come un personaggio che non aveva ancora imparato la sua parte in uno spettacolo a dir poco bizzarro.
Sentì la voce di Joe arrivare da lontano. «… Kate?»
Poi le giunse all’orecchio la voce divertita di Theda Levitte. «Mi sa che lei e Henry stavano facendo proprio una bella chiacchierata.»
Kate si posò una mano tremante sulla fronte. «Lui stava parlando dei suoi… figli.»
Gli occhi di Theda Levitte luccicarono. «Henry, dobbiamo proprio andare.»
Tutto ciò che sapeva Kate era che doveva allontanarsi da lì. Dalla galleria. Da lui. Levitte le stava venendo incontro a braccia tese. «Che ne direbbe di riprogrammare il nostro piccolo incontro, Kate? Stai bene? Mi sembri un po’…» Lei indietreggiò, guardandolo voltarsi e abbassare lo sguardo sulla moglie, stirando la bocca e inumidendo le labbra con la lingua.
Kate si voltò e corse giù per le scale.
«Kate. Kate! Fermati.»
Aveva raggiunto le porte e l’aria fredda le stava già sferzando il viso quando si fermò. Rimase in piedi, aggrappata a una delle maniglie delle porte per sostenersi, guardando Joe che le andava incontro portandole il cappotto e la borsa, il viso preoccupato. «Stavamo fermando un paio di ubriachi che hanno cercato di entrare. Che diavolo è successo lassù?» Kate non rispose. Si sentiva… stupida. Joe la prese per un braccio. «Ti porto a casa. La tua macchina la riporta Bernie.» Intontita, Kate guardò la mano tesa di Joe, poi cercò le chiavi e gliele diede.
Più tardi, dentro la Volvo, consapevole delle rapide occhiate che Joe le lanciava di continuo, Kate passò in rassegna l’accaduto nella sua mente, ricordando il peso di Henry Levitte, il suo calore, le sue mani e la loro stretta possessiva al petto e alla vita, la pressione sulla coscia. Ripensò alla visita in Hyde Road con Bernie, a comportamenti che al momento non aveva notato e che aveva frainteso: la vicinanza fisica, il contatto. Quel giorno era stata circuita e manipolata, un’altra volta. Sentì salire la rabbia. Come poteva essere stata così idiota? Henry Levitte, il rinomato artista, non era malato e sicuramente non era stanco.
Alcune ore più tardi Kate era in un angolo del divano, quasi completamente al buio, le ginocchia strette al petto, e stava cercando di dare un senso agli avvenimenti della giornata. Era ancora arrabbiata. Non solo per ciò che aveva fatto Levitte, ma per la sua mancanza di perspicacia. Eccola lì, a più di trent’anni, convinta di aver sempre avuto una buona capacità di riconoscere le minacce sessuali, come qualunque altra donna. Anzi, di più, data la natura del suo lavoro e della sua preparazione. Eppure gli eventi le erano piombati addosso come un treno, lasciandola sconvolta, incapace di agire, furente. Pensò al viso della modella androgina del dipinto. Sapeva chi ritraeva. Ripensò alle parole di Levitte quando aveva parlato di Cassandra. Le fecero venire in mente una serie di maniaci sessuali che aveva studiato nel corso degli anni. Appoggiò la testa alle ginocchia. Tutti i sentimenti di Levitte erano stati formulati sotto forma di parole innocenti, ma nel complesso il significato generale era chiaro. Ripensò a quanto era stato fluido il passaggio dalla sua descrizione di come si sentisse a suo agio parlando con lei all’aggressione sessuale.
Kate posò la testa sullo schienale del divano. Erano passate delle ore, eppure era ancora scioccata da ciò che aveva fatto Levitte, dalla sua preoccupante mancanza di limiti dal punto di vista sessuale, dal rischio che aveva corso, considerato che lavoro faceva Kate e il suo ruolo in polizia.
Si raddrizzò. Cosa significava esattamente «rischio», per Levitte? Era un famoso artista, in attesa di ricevere un’onorificenza importante. Non c’erano testimoni a parte lei. Spesso la giustizia falliva nel punire i crimini a sfondo sessuale. Se lei avesse provato ad accusarlo, lui si sarebbe limitato a negare. Strinse le labbra, sentendo che iniziava a farle male la testa. Levitte non si era esposto ad alcun rischio, perché si considerava protetto dalla sua identità e dal suo lavoro. In tutti gli anni in cui aveva sfruttato sessualmente qualcun altro non si era mai, mai considerato a rischio di denuncia. Quindi era semplicemente andato avanti. Kate guardò l’orologio: le undici e mezzo di sera. Si alzò dal divano e andò in studio a prendere un quaderno.