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Alla White Box Gallery faceva caldo e si sentiva rimbombare un chiacchiericcio acuto. Il pianterreno era stato trasformato e riempito di stravaganti composizioni floreali e cavalletti che sorreggevano opere di Levitte, ed era già popolato da una folla sofisticata in abito da sera. Kate e gli altri rimasero in gruppo, in cerca di visi conosciuti. Henry Levitte, tanto per cominciare. Non si era ancora fatto vedere. John Wellan era dall’altra parte del salone. Kate si accorse che si era messo uno smoking impeccabile. Non aveva niente di anarchico, tipo la maglietta con qualche personaggio dei cartoni che in un’altra occasione gli aveva visto indossare sotto la giacca. Lo guardò annuire con fare assente davanti a Theda Levitte, che gli stava parlando tutta infervorata, avvolta in un abitino di raso nero lucido che le arrivava sopra al ginocchio, i capelli pietrificati in un’acconciatura innaturale. Quando Matthew Johnson apparve al loro fianco, Wellan sollevò gli occhi con aria imbronciata, poi vide Kate e sollevò il bicchiere di champagne. Seguendo il suo sguardo, si voltò anche Theda Levitte, che le lanciò un’occhiata rabbiosa, serrando le labbra prima di tornare a parlare con Johnson.

Un po’ più vicino a loro c’era Roderick Levitte, che stava parlando con una donna alta e bionda in tubino rosso di taffettà, con i capelli raccolti in un elegante chignon a conchiglia. Che avesse un appuntamento galante? si domandò Kate, notando che, nonostante il completo da sera, sembrava non si fosse rasato. Aveva un’aria esausta come quando lo aveva incontrato in Margaret Street. Vide la sua compagna parlare animatamente con lui e con altri due uomini. Uno le era sconosciuto, mentre l’altro era Alastair Buchanan. Che cosa ci fa qui? Se per caso aveva notato Kate, non lo stava dando a vedere. La bionda alta ora stava ridendo, le labbra lucide ritratte sui denti bianchi, gli orecchini di brillanti che luccicavano. Si voltò, incrociando all’improvviso lo sguardo di Kate. La grande bocca rimase paralizzata per due secondi mentre i suoi occhi si sollevarono sopra alla sua testa e andarono oltre.

Lasciando Bernie e Joe a osservare la folla, Kate si spostò in un punto in cui un gruppetto di ospiti si era raccolto intorno a un uomo che tesseva le lodi di una tela appesa a una parete. «E questo è, naturalmente, un esempio primario di ciò che sto dicendo. In questo quadro si può vedere ogni decisione artistica presa da Henry Levitte durante la sua esecuzione. Si può apprezzare il vero fascino della sua opera a livello immediato, ma anche…»

Kate si voltò, sentendo il cuore batterle più forte alla parola «primario». Bernie apparve al suo fianco e le passò un bicchiere, aggrottando la fronte alla vista del critico. «Ecco. Un gin tonic. Corrigan è andato a fare una rapida ricognizione. Chi è l’artistoide?»

Kate mandò giù un sorso del drink e passò a esaminare il programma commemorativo che le era stato consegnato all’ingresso. «L’hai già visto? Henry Levitte?»

«No, ma ho sentito qualcuno dire che è già qui. Quando gli ho telefonato, ha detto che ci avrebbe mandato un messaggio non appena fosse stato pronto a parlarci, ma poco fa uno dei camerieri mi ha detto che probabilmente le cose andranno per le lunghe. Prima lo vediamo, meglio è. Vorrei chiudere questa cosa per le nove e mezzo.» Fece un cenno con la testa in direzione di Julian, che era in piedi con un bicchiere di champagne in ciascuna mano. «Vado a dire due parole a quello lì.»

Cercando di non pensare all’imminente incontro con Henry Levitte, Kate passò di nuovo in rassegna gli invitati. John Wellan e Theda Levitte non erano più in vista. Lo stesso valeva per Matthew Johnson e Roderick Levitte, anche se la bionda elegante era sempre lì e stava parlando con alcuni uomini che sembravano apprezzarla molto. Kate scrutò la folla un’altra volta, ma non vide traccia di Buchanan.

Alle otto e mezzo, ormai, sembrava improbabile che sarebbero riusciti a incontrare Henry Levitte prima della presentazione ufficiale e del discorso. Kate aveva iniziato a bere il secondo gin tonic e si sentiva già accaldata. Non ci si poteva sedere da nessuna parte. Agitò le dita dei piedi, intrappolate nelle scarpe. Con un leggero mal di testa dovuto alla combinazione di caldo, rumore, profumo e odore di tutti i gigli sparsi per la sala, stava cominciando a dubitare di resistere in piedi ancora a lungo.

Esaminando il salone al pianterreno in cerca del bagno delle signore scorse Joe, che aveva la testa vicina a quella della bionda alta. Joe sollevò lo sguardo verso di lei e ammiccò. Mentre lo guardava, lui disse qualcosa alla donna, che inclinò la testa verso di lui e gli rivolse un ampio sorriso. Joe si allontanò, incamminandosi verso Kate che, non per la prima volta, pensò a quanto fosse affascinante. Evidentemente la bionda la pensava allo stesso modo.

«Come sta andando, Rossa?»

«Bene. Non mi ero accorta che ti piacessero particolarmente le donne alte quanto te» sbottò. Ecco il risultato di due gin tonic: non solo diventi gelosa, ma glielo fai anche sapere, idiota.

Joe sollevò le sopracciglia. «Mi piacciono le donne.» Poi, vedendo l’espressione di Kate, sogghignò. «Nello stretto interesse delle nostre indagini, stavo altruisticamente concedendo la mia totale attenzione alla signorina Miranda Levitte.»

Kate si voltò a guardare il punto dove si trovava Miranda. «È lei?» Tornò a guardare Joe. «Mmm. Ho visto bene come ti concedevi. Hai idea di dove sia Henry Levitte?» Guardò l’orologio. «Sono le otto e mezzo passate.»

Joe scrutò la sala, sovrastando la maggior parte delle teste che li circondavano. «Non lo vedo.»

Kate gli tese il bicchiere. «Potresti prendere questo, Joe? Vorrei trovare il bagno delle donne e incoraggiare il mio sangue a tornare a circolarmi nei piedi. Quando eravamo qui, l’altro giorno, ho visto che ce n’era uno al piano di sopra.»

Si voltò e, incamminandosi verso le scale, si trovò faccia a faccia con Miranda Levitte, che la squadrò dall’alto in basso, con sguardo inquisitorio. «Quindi è lei la psicologa che ha in programma di parlare con mio padre stasera.» Si voltò. «Non si dilunghi, per favore. È piuttosto stanco.»

«Lo terremo a mente» rispose Kate, aspra, consapevole di un’altra presenza che le si era avvicinata. Sentì una mano pesante sulla parte superiore del braccio e la voce di Theda Levitte sopra al trambusto. «Signora Hanson.»

«Signora Levitte» rispose Kate, ora profondamente infastidita dal rumore e dal caldo.

«Sono molto sorpresa che lei e quei due poliziotti abbiate fatto in modo di venire qui proprio stasera. Henry mi ha detto che volete parlargli. Che cos’è questa storia? Voglio saperlo.»

«Mi dispiace, non posso discuterne con lei. Dobbiamo parlare prima con suo marito.»

«Bene!»

Arrivò Joe e si mise al fianco di Kate, dall’altra parte. Theda Levitte lo squadrò dalla testa ai piedi e se ne andò. La videro gesticolare nervosamente con un cameriere e mettersi in posa di fronte a un fotografo ufficiale, lì vicino. «Chi è il peso massimo avvolto nella pellicola per alimenti?» chiese Joe.

«Quella è la signora Henry Levitte Seconda» rispose Kate, avviandosi verso le scale. «Non ci metterò molto.»

Con i piedi che pulsavano, Kate si fece largo tra la folla fino a raggiungere lo spesso cordone rosso che sbarrava la scalinata. Risate stridule e schiamazzi la seguirono mentre sganciava la corda e saliva sul primo gradino per poi agganciarla di nuovo e continuare a procedere, ora molto consapevole dell’effetto del gin unito al caldo e al rumore.

Il piano superiore era fresco e silenzioso. La luce fievole che saliva dal piano di sotto riusciva a malapena a penetrare il buio. Incapace di trovare un interruttore della luce, Kate si allontanò dalle scale e procedette verso il muro vicino. Disorientata, chiedendosi se forse non era troppo presto per trovarsi lassù dopo ciò che era successo la volta prima, accarezzò la superficie liscia del muro con una mano, finendo per sbattere contro una specie di bassa scaffalatura su cui intravide un tovagliolo bianco e un vassoio di metallo.

Continuò a camminare in quella che, secondo il suo ragionamento, doveva essere la direzione giusta e raggiunse un corridoio semibuio appena oltre la sala principale, in cui vide una porta con un’insegna luminosa: Signore. Con gran sollievo, Kate vi entrò. Il bagno era vuoto. Si lasciò cadere su una delle sedie dall’alto schienale di fronte a uno specchio circondato da lampadine. Chiuse gli occhi e rimase lì qualche minuto, godendosi il silenzio e l’opportunità di stare seduta. Poi si raddrizzò e aprì gli occhi per esaminare la sua immagine riflessa. L’aspetto non era male, anche se era un po’ rossa in viso. Ma i piedi! Mosse di nuovo le dita, sentendo che cominciavano a pulsare, maledicendo le scarpe ma non osando togliersele. Era più opportuno rimanere seduta ancora un paio di minuti nella speranza di sentirsi meglio.

Aprì la pochette, prese il lucidalabbra e se lo mise, dando una rapida occhiata all’orologio. Ormai la presentazione era imminente. Dove era andato a finire Henry Levitte? Guardò il programma che le avevano consegnato all’inizio, con un ritratto in copertina. Guardò all’interno, lesse il riassunto della lunga e illustre carriera del pittore e il resoconto del suo notevole contributo all’arte e a diverse istituzioni benefiche. Il premio gliel’avrebbe consegnato il sindaco. Ripiegò il programma, lo infilò nella pochette, si alzò in piedi con una piccola smorfia di dolore e uscì dal bagno.

Ora il piano superiore era immerso in un’oscurità quasi totale. Probabilmente è l’effetto della luce accesa in bagno. Consapevole del grande spazio vuoto antistante, ed essendosi in qualche modo allontanata dal muro, Kate procedette a piccoli passi, chiedendosi che cosa fosse successo alla già scarsa illuminazione proveniente dal piano inferiore. Ora era rimasto solo un bagliore flebilissimo e tutta la galleria si era fatta silenziosa. Stanno per iniziare la presentazione! Hanno abbassato le luci. Lui è al piano di sotto. Adesso dovremo aspettare finché non si libera.

Kate avanzò ancora di qualche passo e poi si fermò, conscia di uno scricchiolio ritmico e costante che veniva da un punto vicino a lei. Incapace però di capire da che parte arrivasse, fece qualche altro passo e si fermò di nuovo, questa volta per annusare l’aria. C’era un odore. Non erano fiori. Non era un profumo. Il suo naso inspirò le molecole odorose, i neuroni inviarono messaggi al suo cervello. Pungente e sostanzioso, l’odore le riempì la testa, riportandola a quando, a diciassette anni, faceva la volontaria in ospedale e distribuiva libri e giornali ai pazienti anziani.

Confusa e turbata, fece qualche altro passo incerto e finì contro uno sbarramento di lana zuppa e maleodorante che le si strofinò sul viso e sulle labbra. In preda al panico, disorientata, boccheggiando al tocco di quella stoffa bagnaticcia, Kate aprì la bocca per respirare, mentre la lana cedeva davanti a lei. Fece una smorfia e la pochette di raso le cadde di mano mentre una suola delle scarpe, resa viscida, scivolava sul pavimento liscio e bagnato. Agitando braccia e gambe nel tentativo di contrastare la forza di gravità, Kate cadde per terra, sul pavimento duro. Rimase sdraiata, incapace di muoversi, volgendo la testa verso la luce che ora penetrava dal piano inferiore, sentendo levarsi delle voci. Si sentì galleggiare, con gli occhi chiusi.

Quando li riaprì vide il vasto soffitto a volta. Era lontanissimo. Molto, molto più vicino c’era Henry Levitte, il viso che la fissava penzolando tutto da una parte, le labbra bagnate e flosce, gli occhi color bianco giallastro, come privi di pupille, il collo congestionato. Oscillava, fragile ed elegante, e Kate lo seguiva con lo sguardo: a sinistra, a destra. A sini…

Il cervello di Kate andò in tilt e lei svenne.

Niente di umano
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