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Kate era in macchina, il motore acceso, il cellulare premuto all’orecchio. «Julian, mi serve una ricerca urgente. Urgentissima.» Gli fornì i dettagli, riagganciò e uscì dal parcheggio. Dopo pochi minuti stava spalancando la porta d’ingresso di casa sua. Sicuramente, se lo avesse visto, se ne sarebbe resa conto anche la sera prima.
Una voce petulante la raggiunse all’ingresso. «Kate? Sei tu, Kate?» Ignorandola, salì di gran carriera sulle scale.
Volò fino alla camera da letto e aprì l’armadio, buttando all’aria sciarpe, cinture e borsette, in cerca di un oggetto in particolare. Si fermò. Eccola. La prese in mano, sentendo il freddo del raso sulle dita. Aprì la pochette con mani malferme, ne estrasse il programma della sera precedente e, lisciandolo con le dita, lo capovolse. Eccolo lì. Henry Levitte in un ritratto. Il dettaglio era molto piccolo. Lo portò vicino alla finestra. Sembrava simile, ma doveva esserne sicura, doveva esaminare l’originale. Corse giù per le scale e si lanciò fuori di casa, sentendo la voce irritata di Kevin alle sue spalle.
Avvicinandosi alle porte di vetro della White Box Gallery, Kate vide un grosso furgone bianco parcheggiato nelle vicinanze. Le parole sulla fiancata dicevano che apparteneva all’Istituto di arte e design di Margaret Street. Il furgone era controllato da vicino da una guardia di sicurezza.
Kate si diresse verso le porte aperte della galleria e fu bloccata da un uomo in uniforme. «Mi scusi, signora.» La guardò ostile da sotto il berretto, un braccio teso a sbarrarle la strada. Innervosita, Kate cercò il tesserino in borsa. Doveva entrare. Doveva vederlo. La guardia di sicurezza studiò in tutta calma il tesserino di Rose Road, senza impressionarsi. «Sta cercando qualcuno?» Lo sguardo di Kate passò in rassegna il pianterreno, vedendo che la maggior parte di ciò che c’era la sera precedente era in via di smantellamento. Le opere erano già sparite. Si morse il labbro. Perché la sera prima non se n’era accorta? Eri troppo occupata a non perdere la poca dignità che ti è rimasta. Grazie, gin tonic. Lanciò un’occhiata al furgone. «Stan, di Margaret Street. È qui?» Con un’aria ancora meno impressionata, la guardia sollevò il braccio. «Di sopra.»
Con il cuore che batteva sempre più forte, Kate si avvicinò alle scale e iniziò a salire. Quando raggiunse il piano superiore ormai le martellava in petto, memore dell’esperienza della sera prima. «Stan? Stan!»
Kate lo vide in lontananza che stringeva in mano un foglio. Vedendola, l’uomo sorrise. «Ancora lei. Ho quasi finito. Sto solo controllando la lista dei quad… Si sente bene?»
Lei annuì rapidamente. «Sto bene. Voglio vedere una cosa…»
«È bianca come un cencio. Venga qui. Si sieda su questo divano…»
«No! Ascolti, quando ero qui ieri sera ero in una piccola stanza. Da qualche parte laggiù. Era senza finestre e quasi senza mobili.»
«Penso di sapere quale int…»
«Devo entrare a vedere una cosa.»
«La accompagno giù… sicura di non aver bisogno di niente?»
«Andiamo.» Kate iniziò a scendere le scale. Stan la raggiunse nell’ampio spazio ormai quasi vuoto del pianterreno e poi la guidò lungo un corridoio. Fermatosi davanti a una porta di legno chiaro, la spalancò. «Ecco.»
Kate entrò, la mente inondata dai ricordi della sera precedente. Ecco il tavolo, la sedia, persino il giornale… Si guardò intorno, poi si rivolse a Stan. «Dove sono? Dove sono finiti?»
Lui la scrutò con aria dubbiosa. «Di cosa parla?»
Fuori di sé, Kate indicò un angolo. «Qui ieri sera c’erano due dipinti appoggiati a quella parete. Uno era un ritratto. Io devo riguardarlo.»
L’uomo sollevò le mani. «Okay, okay. Non c’è bisogno di agitarsi. È fuori.»
La accompagnò fuori con un’espressione un po’ circospetta. Aprì i portelli del furgone, indicandone il contenuto. «Penso di aver capito di cos’è che parla. Se mi dà un…»
Kate era già all’interno, piegata in due, a osservare i dipinti infilati in una struttura di legno e metallo. L’uomo la seguì. «È lì.» All’interno del furgone, in mezzo ai preziosi pezzi di quel carico, Stan si mosse verso due grandi tele dalle cornici pesanti. Ansando per lo sforzo, spostò la più grande in modo da tenerla di fronte a Kate, che vi si era accovacciata davanti. «È questo?»
Kate lo fissò. I capelli scuri, il naso deciso, la bocca carnosa. «È questo.» Chinandosi ulteriormente, si concentrò sulla zona tra la mano e l’avambraccio. L’avrebbe riconosciuto ovunque. Prese il cellulare.
Ringraziando Stan, Kate lasciò la White Box Gallery e si affrettò a tornare in macchina. Si allontanò dal centro, valutando la prossima mossa. Nathan Troy era morto per un motivo specifico. Non perché qualche pazzo sconosciuto aveva sentito il bisogno di eliminarlo. Poteva averlo ucciso Henry Levitte. O, se non lui, qualcun altro che Levitte conosceva. Le servivano dei fatti sull’adolescenza di Cassandra. Conosceva solo un posto dove trovarli: la Hawthornes.