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Kate parcheggiò l’auto nello spazio di fronte al Bell, si tirò su il bavero del cappotto e infilò bene le mani in tasca. Le girava la testa e stava ancora poco bene a causa degli avvenimenti della sera precedente. Mentre camminava in quel desolato paesaggio invernale si incupì. Che cosa avrebbe ottenuto? Era l’azzardo più grande di tutti. Attraversò Old Church Road e camminò sotto al portale di pietra che dava accesso al camposanto, sovrastato da sempreverdi scuri, gli occhi fissi sulla vecchia torre di pietra alla fine del vialetto.
Seguendo il sentiero fra le tombe, rallentò per esaminare le lapidi: racchiudevano la storia di intere famiglie. Si fermò accanto a una grande struttura in pietra. Un sepolcro di famiglia. Si avvicinò di qualche passo per leggere le parole incise sulla superficie grigiastra, butterata da qualche misteriosa piaga che si accaniva su quei vecchi sassi. Riusciva a scorgere solo qualche lettera isolata.
Tornò sul sentiero e proseguì. La lapide che era venuta a cercare, probabilmente, era altrettanto vecchia e indecifrabile. Magari non esisteva nemmeno. Stava sprecando tempo mentre le indagini dell’Udi erano impantanate – se quanto aveva sentito dire da Furman era vero, sarebbero stati querelati – e all’università stava rimanendo indietro con il lavoro. Forse sarebbe dovuta tornare a casa a riposare per un’ora? Poi si ricordò. C’era ancora Kevin. In quel momento non aveva la forza di vederlo.
Un improvviso rumore poco distante la allarmò. Si fermò, passando in rassegna il cimitero con lo sguardo. Un uomo alto e smilzo, in giaccone imbottito e sciarpa pesante, con la classica scopa in mano, stava spazzando via le ultime foglie morte dall’area intorno ad alcune lapidi. Era un altro azzardo, ma visto che era lì, tanto valeva chiedere.
«Mi scusi… Salve.» L’uomo si interruppe e guardò in direzione di Kate. «Lei lavora qui? Intendo dire regolarmente. Conosce bene la chiesa?»
L’uomo appoggiò la scopa contro una pietra tombale, il viso arrossato dallo sforzo e dal freddo, e si avvicinò a Kate, allentando la sciarpa e rivolgendole un sorriso amichevole. «Sono un volontario. Vengo qui da anni. Che cosa vuole sapere?»
Kate non era preparata a una domanda tanto diretta e quindi improvvisò. «Una mia amica, be’, non è esattamente un’amica, ma mi ha detto che lei e suo marito… appartenevano a questa parrocchia anni fa e… mi stavo chiedendo… se la loro famiglia vi fosse strettamente legata. Abbiamo un po’ perso i contatti.» Stai mentendo in terra consacrata. Non le importava. Benché quella spiegazione improvvisata fosse pessima, le aveva chiarito il ragionamento alla base della sua decisione di recarsi lì.
L’uomo annuì, tendendo un braccio verso la chiesa. «Ho una chiave. Lei ovviamente sa come si chiama la sua amica, quindi perché non entriamo? In chiesa sono conservati i registri delle nascite, dei matrimoni e delle morti dei parrocchiani da qui a molti anni addietro.» Kate camminò insieme all’uomo verso il vecchio edificio, in ascolto. «Sono i registri della chiesa, capisce, ma spesso vengono persone che chiedono di vederli quando ricostruiscono i loro alberi genealogici. È diventato un passatempo di moda. Può tranquillamente fare lo stesso. Provi a vedere se trova qualche informazione sulla sua amica.»
Giunti sul retro della chiesa, l’uomo condusse Kate fra due tassi scuri fino a raggiungere una porta quasi nascosta. Lei lo guardò infilare una grossa chiave nelle serratura. «Mi spiace doverglielo chiedere, ma…» Si strinse nelle spalle e la condusse in una piccola stanza fredda con le pareti coperte di moderne scaffalature. Voltandosi verso Kate, chiese: «Amica giovane o vecchia?».
Lei lo guardò, colta alla sprovvista. «Oh, be’, a dire il vero sono due… cinquanta e settant’anni circa…» concluse debolmente.
Con un cenno di assenso l’uomo si avvicinò agli scaffali e fece scorrere l’indice lungo le coste marroni dei volumi. Osservandolo, Kate vide che erano in ordine alfabetico e raggruppati nelle tre categorie che aveva sentito citare. Mentre lei aspettava, l’uomo selezionò tre pesanti volumi rilegati in pelle e li portò a un tavolo su un lato della stanza. «Mi dispiace che qui faccia così freddo. Non posso neanche offrirle niente da bere, signorina… signora…?»
«Hanson. Kate Hanson. Non si scusi, la prego. L’ho interrotta mentre era occupato.»
«Nessun problema. Spero che non le dia fastidio se glielo chiedo, ma si sente bene?»
Kate sapeva che cosa intendesse. Si era vista nello specchietto prima di uscire dalla macchina: aveva il viso pallido, le occhiaie e i capelli scarmigliati. «Sto bene, grazie.»
«Allora resti tutto il tempo che le serve.» L’uomo indicò i volumi che aveva scelto. «Se qui non trova le informazioni che le servono, si senta libera di cercare tra gli scaffali. Mi trova fuori. Mi faccia sapere quando ha finito.» Le sorrise, andò verso la porta e uscì, richiudendosela alle spalle.
Kate scosse la testa, prendendo il primo volume. Dopo quella storia assurda, con l’aspetto che hai, non c’è da stupirsi se ti ha presa per stramba. O peggio. Controllando le date e le parole impresse sulle copertine di cuoio, selezionò un volume e si mise al lavoro.
Nel giro di quindici minuti era passata al secondo volume e aveva trovato il primo riferimento interessante: il matrimonio fra Henry Levitte e la prima moglie Flora Tremblay era stato celebrato lì. Lesse i dettagli: lui era nato nello Hertfordshire, lei a Montreal. Anche il secondo matrimonio era stato celebrato lì: Theda Barr, infermiera nubile di Sheffield. Giunta al terzo volume, voltò le pagine, scorrendo le parole scritte con mano elegante: Henry Winston Levitte, nato nel 1902. Quello doveva essere il padre. Continuò a leggere. Aveva lavorato come ingegnere progettista alla de Havilland. Vedendo quel nome, Kate spalancò gli occhi. L’azienda che produceva aerei? Kate sentì accelerare il battito del cuore, ripensando a ciò che aveva detto Julian in merito al costoso orologio trovato con il cadavere di un ragazzino, e cioè che poteva essere appartenuto a un pilota. Ricontrollò le informazioni. Levitte Senior era morto nel 1985. Sapeva che quella non era una “vera” prova, non era un fatto incontestabile, ma aveva senso. Henry Levitte poteva aver ereditato l’orologio alla morte del padre. Ora la questione era: Henry Levitte ce l’aveva ancora al momento della morte di Nathan Troy? Se no, chi ce l’aveva quando Troy fu sepolto sotto al pavimento del capanno sul lago?
Kate chiuse i volumi, pensando a un ingegnere con un figlio che diventa pittore. Mentre riportava i libri sugli scaffali, i pensieri continuarono a vorticarle nella mente: Nathan Troy e i suoi disegni raffinati e bellissimi. I suoi disegni. Ritratto. La parola piombò nella testa di Kate talmente all’improvviso che sentì quasi il rumore dei pezzi del puzzle che si giravano, scivolavano e si univano in un quadro unico e soddisfacente. Doveva tornare a casa. Ora. Doveva vedere. Allontanandosi svelta dalla chiesa, si incamminò verso l’uomo che spazzava le foglie. Quello si voltò. «Sono venuta a dirle che ho finito. Grazie. Devo andare…»
L’uomo la guardò camminare svelta e gridò: «Ha trovato… chi o cosa stava cercando?»
Kate si voltò senza smettere di camminare. «Sì.»