18
Kate lasciò l’auto in uno dei livelli superiori del vecchio parcheggio multipiano, poi scese prendendo le scale e, stando ben all’erta, oltrepassò i cartelli con scritto Accesso vietato ai pedoni. Mentre percorreva la breve distanza che la separava da Margaret Street, osservò l’edificio ottocentesco in mattoni rossi, l’imponente massa in stile gotico veneziano che torreggiava sui marciapiedi di Edmund Street.
Una volta che lo ebbe raggiunto, entrò dall’ingresso principale e si presentò a una giovane segretaria con un ordinatissimo caschetto nero, che la annunciò e le chiese di attendere. Dopo quindici minuti di crescente nervosismo, Kate vide un uomo apparire davanti a una porta con la parte superiore in vetro smerigliato, su un lato dell’atrio.
«Dottoressa Hanson? Roderick Levitte. Mi segua, prego.» L’uomo scomparve, costringendo Kate a recuperare terreno di corsa nell’ampio ingresso per poi affrettarsi lungo uno stretto corridoio in penombra che sembrava più che altro un percorso a ostacoli, le pareti ricoperte di tele di varie dimensioni, fino a raggiungere una seconda porta che dava su un enorme spazio vuoto accanto a un piccolo ufficio ingombro. Una volta all’interno, vide l’uomo riordinare una quantità di fogli sulla scrivania. Poi Roderick Levitte sollevò lo sguardo, scocciato. «L’arte finisce per produrre un sacco di carta, che nella maggior parte dei casi non riesco a trovare. Su, si sieda. Non ho ben capito che cosa voglia da me, ma sarò felice di aiutarla, se posso, anche se in questo momento…» Sospirò. «Probabilmente ha capito che è un momentaccio.»
«So bene che è molto impegnato nella preparazione della retrospettiva per suo padre, quindi apprezzo davvero la sua disponibilità.» Allungò il braccio per prendere la borsa. «Mentre parliamo vorrei prendere qualche appunto.» L’attenzione di Kate era ancora focalizzata sulla confusione sopra la scrivania. Kate osservò il tavolo, le tazze di caffè sporche, il piccolo bicchiere da superalcolici, qualche ricevuta di scommesse e diverse copie di un catalogo. Inclinò la testa: Henry Levitte: una retrospettiva. Sollevò lo sguardo e vide che l’uomo la stava fissando. «Al telefono le ho detto che lavoro per la polizia, nell’Unità delitti insoluti. Stiamo investigando su un vecchio caso di omicidio avvenuto nei dintorni e abbiamo già parlato con diverse persone, compresi alcuni componenti della sua famiglia.»
«Sono sicuro che le siano stati maggiormente d’aiuto di quanto possa esserlo io.» Kate attese, aspettandosi che le chiedesse chi era stato assassinato. Ma l’uomo non lo fece. Forse il padre o la matrigna ci avevano già parlato. Kate colse ulteriori segni di turbamento nello sguardo, che vide vagare nel piccolo ufficio. «In questo momento la mia esistenza è praticamente sospesa. Lavoro qui diciotto ore al giorno, anche se devo dire che il personale si sta sforzando in modo esemplare per assistermi.» Si passò una mano tra i capelli scuri. «Come probabilmente sa, mio padre è ormai avanti con gli anni, quindi faccio il possibile per aiutarlo. Siamo una famiglia molto unita e stiamo lavorando insieme per fare in modo che la preparazione di questa celebrazione delle sue opere non lo sfinisca. Ha dato molto al mondo dell’arte e merita ogni riconoscimento possibile.» Kate si limitò ad annuire. «Quindi, dottoressa Hanson. Chi è stato ucciso?» Le rivolse un sorriso stanco ma amichevole.
«Nathan Troy.»
Il viso dell’uomo si incupì all’istante. «Non ho niente da dire su di lui.»
Sorpresa da quell’improvviso cambiamento di umore, Kate rimase in attesa, notando che Levitte non si faceva la barba almeno da un giorno e che aveva gli occhi arrossati. Ti ha appena detto che sta facendo gli straordinari. L’uomo smise di affaccendarsi freneticamente alla scrivania e le sue mani si fermarono. Salvo per il tremore, che non lo abbandonò. «A me sembra che invece possa dirmi parecchie cose su Nathan Troy, signor Levitte.»
Levitte si lasciò cadere sulla poltrona dietro alla scrivania, gli occhi irrequieti. «Ho detto a Henry quel che pensavo di Troy anni fa. E lui mi ha mai dato retta? No!» Incollerito, l’uomo iniziò a lamentarsi. «È sempre la stessa storia! La mia matrigna, le mie sorelle dicono qualcosa e lui ascolta. Ma se parlo io? Figuriamoci. Perché diavolo dovrebbe fregargliene?»
L’uomo non disse altro, e Kate chiese: «Che cosa gli aveva detto riguardo a Troy?».
Lo guardò lottare per riacquistare un minimo di calma. «Non ho intenzione di tirar fuori di nuovo tutta quella storia. Stiamo parlando di quasi vent’anni fa. È finita ormai. Io… le cose sono cambiate per tutti, adesso.»
Kate lo guardò negli occhi. «Signor Levitte, se lei dispone di informazioni su Nathan Troy, è necessario che le riferisca alla polizia. Potrebbero essere importanti per farci capire il motivo della sua morte. Potrebbe aiutarci nelle indagini.»
«Io non ho niente da dire, se non che non era una persona adatta al Woolner. Non ho altro da aggiungere.»
Kate aggrottò la fronte. La sua attenzione era stata catturata dalla parola “adatta”. «Che cosa intende?» L’uomo si voltò senza rispondere. «Mi era parso di capire che fosse uno studente di grande talento. Il suo tutor, il dottor Wellan, ha parlato molto bene di…»
L’uomo si arrabbiò di nuovo. «Certo, Wellan! Quello è un altro individuo patetico… Sempre lì a pontificare su quanto sia importante andare d’accordo con gli studenti. “Stare tra i giovani”» disse in tono sprezzante, virgolettando con le dita. Si alzò per avvicinarsi ad alcuni rotoli di carta marrone appoggiati in un angolo, accanto alla porta. Ne prese un paio e ricominciò a parlare, dando le spalle a Kate. «Wellan ha sempre fatto come gli pareva, e lo fa ancora. Mio padre è della “vecchia scuola”. Disapprova l’uso del computer nella produzione artistica. Non importa che sia quasi in pensione: Wellan dovrebbe tenere comunque in considerazione quello che dice. Invece no. Se ne frega. Vuole fare l’innovatore. Ah! È il primo a fare la fila per i finanziamenti, che poi spreca per comprare ogni sorta di inutili software e aggeggi tecnologici all’ultima moda! Dove sarebbe la creatività?» Diede uno strattone alla maniglia della porta. «Non posso perdere altro tempo con queste faccende.»
Sbigottita da tutta quell’aggressività, Kate rimase a guardarlo mentre lasciava la stanza. Radunando in fretta le sue cose, si alzò spostandosi nel grande spazio vuoto, dove ora l’uomo era in piedi accanto a un alto cavalletto. Osservò i suoi sforzi per coprire con la carta un piccolo dipinto incorniciato, ma aveva le mani tremanti e finì per fare un pasticcio. «L’impressione che ho avuto è che il dottor Wellan si impegni molto per i suoi studenti, che lo apprezzano e…»
Il viso di Roderick Levitte si fece scuro. «Oh, sì, è molto apprezzato.» Kate vide la saliva schizzargli dalla bocca. L’uomo vi premette sopra la mano per asciugarla. «È un ipocrita, un opportunista da quattro soldi che osa disprezzare e prendere in giro un uomo venerabile, un artista un milione di volte migliore di quanto lui riuscirà mai a essere.» Con il viso arrossato, Levitte si fermò e, posando le mani sul tavolo, lasciò cadere la testa in avanti, nel silenzio.
Dopo aver valutato il comportamento di Roderick Levitte e il modo eccessivo di esprimersi con lei, una completa estranea, Kate dubitò che, in quello stato di stress, l’uomo le avrebbe fornito informazioni attendibili. «Preferirebbe che prendessimo un altro appuntamento per parlare con più calma?»
«Che cos’altro c’è che vuole sapere?» borbottò lui, sempre a capo chino.
Kate insisté. «Ho bisogno di farle delle domande sul genere di rapporti che ha avuto con Nathan Troy più o meno nella settimana precedente alla sua scomparsa. E dovremmo anche metterci in contatto con le sue sorelle.»
Levitte raddrizzò la schiena. «Io non ricordo di aver avuto “rapporti” di nessun genere con lui, e con mia sorella Cassandra non è possibile parlare. Non sta bene.»
Kate annuì, decidendo di non menzionare la scena a cui avevano assistito lei e Bernie a casa Levitte, cosa di cui l’uomo sembrava essere all’oscuro. «Dove potremo trovarla quando starà meglio?»
In risposta, Kate ricevette un altro sguardo allucinato. «Starà meglio?» La testa e le spalle dell’uomo ricaddero di nuovo in avanti e Kate dovette sforzarsi per sentire cosa stesse dicendo. «Sta in una clinica a Edgbaston. La Hawthornes.» Poi rialzò la testa di scatto. «Ma non si avvicini nemmeno a quel posto senza il permesso di mio padre.» Sollevò una mano e la puntò contro Kate. «Anzi, dimentichi ciò che le ho detto. Che cos’altro vuole?» domandò.
Kate lo guardò negli occhi. «Avremmo bisogno di contattare l’altra sua sorella. Possiamo tranquillamente telefonare a suo padre se…»
«Miranda ha una galleria d’arte. Vine Terrace, Harborne.» Per la prima volta sostenne brevemente lo sguardo di Kate. «Io… io sono sotto pressione in questo momento. Ha ragione, è meglio che torni un’altra volta.» Abbassò gli occhi sul dipinto. Contraendo il viso in una smorfia, strappò via l’imballaggio e dovette usare entrambe le mani per appallottolarlo, da quanto gli tremavano. «Ho avuto una giornata pesante.»
Presumendo che fosse solo l’ultima di una lunga serie di giornate pesanti, Kate annuì e si preparò ad andarsene. «Quando ci incontreremo di nuovo, signor Levitte, dovrò chiederle di spiegarmi come mai pensa che Nathan Troy fosse “inadatto” a frequentare il Woolner College.» Vide il viso dell’uomo riaccendersi. «A proposito, non le ho detto nulla della morte di Nathan Troy.» E tu non me lo hai chiesto. «Il suo corpo è stato ritrovato nel Woodgate Country Park.»
L’impatto delle ultime tre parole fu immediato. Il colore abbandonò il viso di Levitte. Fissò Kate con occhi iniettati di sangue, furibondo, e sollevò un braccio per puntarle contro un dito tremante. «Glielo dico adesso, che cos’era Troy! Era una persona deprecabile, schifosa, spregevole… Mi dava il voltastomaco, mi disgustava. Gente così non dovrebbe avere il permesso di…» Si interruppe per riprendere fiato. Kate fece un passo avanti, ma l’occhiata che ricevette le fece pensare che avvicinarsi non era una buona idea. Quindi decise di andarsene e telefonare più tardi per prendere un altro appuntamento, in un momento in cui l’uomo potesse mostrarsi più equilibrato e collaborativo.
Si mise in spalla la borsa e attraversò l’immenso salone vuoto. «Le telefono, signor…»
«Aspetti.» Kate si voltò e lo vide passarsi stancamente una mano sulla fronte umida. «Come le ho detto… sono sotto pressione. Di solito non sono così. Davvero. È un momento… difficile.»
Kate sentì dei passi avvicinarsi dal corridoio che aveva percorso prima. Voltandosi, vide entrare due uomini, ciascuno con in mano due grandi tele incorniciate. Anche Roderick Levitte li stava guardando. Si infuriò all’istante. «No, no, no! Che cosa vi ho detto, neanche mezz’ora fa? Portatene solo una alla volta.» Quando gli uomini arrivarono al tavolo, Roderick prese i dipinti e li esaminò entrambi. «E questi non erano neanche nell’elenco. Riportateli indietro!» sbraitò. Gli uomini si scambiarono un’occhiata, sollevarono il carico e se ne andarono.
Levitte sembrava esausto. «Ecco, questa è la qualità dell’assistenza che mi danno. Da disperarsi. Sto facendo tutto da solo.»
«Mi arrangio io a trovare la strada per uscire, signor Levitte, e le telefonerò per prendere un nuovo appuntamento.» Kate si allontanò lungo il corridoio buio e ingombro che riportava all’atrio. Dietro un’altra porta − sempre riparata per metà da un vetro smerigliato – scorse i due uomini che avevano trasportato i quadri. La signorina Caschetto non si vedeva da nessuna parte, così Kate attraversò l’atrio e bussò alla porta. Uno degli uomini sbirciò dal vetro e poi aprì.
Lei gli rivolse un gran sorriso. «Stavo parlando con il signor Roderick Levitte giusto quando siete arrivati.» Il collega all’interno della stanza lanciò un’occhiata a Kate mentre appoggiava una tela a un sostegno verticale. «Mi interesserebbe vedere le opere escluse dalla mostra.» L’uomo assunse un’espressione incerta. «Mi manda la polizia» disse, laconica.
L’uomo annuì e le fece cenno di entrare. «Stan? Ritira fuori un attimo quelle tele. La signorina qui vuole vedere che cosa ha rimandato indietro Sua Maestà.»
Stan portò i quadri davanti a Kate, posandoli su un grande tavolo al centro della stanza. Erano chiaramente due Levitte. Erano molto più grandi di Paesaggio al sole, appeso alla parete del suo studio. Le linee ondulate che amava tanto nel dipinto di sua proprietà in queste opere erano esagerate in una sorta di parodia febbrile. Forse era quella la ragione per cui erano state scartate?
Mentre raddrizzava la schiena, la sua attenzione fu catturata da due grandi tele dalle cornici dorate e riccamente adorne appoggiate a un muro lì vicino. Entrambe erano studi per ritratti, alte quanto Kate. Stan incrociò il suo sguardo. «Quello è il Vecchio. Henry Levitte, cioè. Suo padre. Un grand’uomo. Non come lui. Scommetto che le ha detto che si sta ammazzando di lavoro… Non gli creda. È uno spreco di fiato. È sempre stato così. E come ha fatto, con un padre come quello…»
Gli occhi di Kate si soffermarono sulla figura seduta di uno dei ritratti. I capelli erano più scuri, la mandibola ben delineata, la mano elegante posata sul bracciolo della sedia, priva delle macchie e delle vene in evidenza che Kate aveva osservato di recente. Sarà stato, non so, almeno vent’anni fa? Ringraziò Stan e il collega, si incamminò verso la porta e uscì.
Quando recuperò l’auto, Kate vi si chiuse dentro e poi reclinò il capo sul poggiatesta. Se il comportamento di cui era appena stata testimone nel corso dell’incontro con Roderick Levitte rappresentava la norma, evidentemente Cassandra non era l’unica ad avere problemi in quella famiglia. Avviò il motore e si diresse verso l’uscita, ripensando alle parole di Roderick Levitte: Gente così non dovrebbe avere il permesso di… Che cosa stava per dire? Non dovrebbe avere il permesso di vivere?
Mentre guidava si chiese perché Nathan Troy, figlio amato e studente apprezzato, potesse provocare un’ostilità tale da volerlo morto. L’ostilità di Roderick Levitte nei suoi confronti era rimasta invariata a distanza di vent’anni. Mentre procedeva cauta nel traffico dell’ora di punta, Kate rifletté sulle tipologie di personalità esistenti in rapporto a ciò che aveva visto e sentito nell’edificio di Margaret Street.
Si immise nel flusso del traffico che usciva dalla città su Hagley Road con un pensiero in testa, stavolta un po’ più allegro. C’era un’altra cosa che era diventata ovvia. Ora conoscevano l’identità dello studente che non piaceva a Nathan Troy. Aveva trovato «Rod».