7

Kate era al piano di sopra e stava parlando al telefono. Alle otto suonò il campanello. Guardò l’orologio. «Candice, devo andare. Comunque siamo d’accordo, lo dico a Maisie. Okay, ciao.»

Mentre passava dalla sua camera al pianerottolo, sentì la porta d’ingresso che si apriva, seguita dalla voce profonda di Joe nell’atrio. «Ciao, genietto. Insegni, oggi?»

«Ah, quello sì che mi piacerebbe. Tanto per cominciare mi libererei di robe noiose tipo educazione civica.»

«Ti ci vedo. Dov’è la mamma?»

«Di sopra, probabilmente ad agghindarsi i capelli.»

Kate sbuffò e iniziò a scendere le scale. «Ciao, Joe. Sono pronta per i signori Troy, ma devo scambiare due parole con…»

«E chi sarebbero “i signori Troy”?»

«Non sono affari tuoi. Ti ricordi che cosa ti ho detto ieri sera? Non pensare neanche di avvicinarti al Woodgate Park.»

Maisie alzò gli occhi al cielo. «Va be’.»

«Ho parlato con Candice e ci siamo messe d’accordo: da oggi tu e Chelsey potete andare e tornare da scuola in autobus. Vediamo come va.»

Maisie si incamminò verso le scale, imbronciata. «Abbiamo quasi tredici anni, mammina cara. Non farlo apparire come un grande evento.»

Kate decise di ignorarla e lanciò un’occhiata a Joe. «Andiamo?»

«Ai tuoi ordini, Rossa.»

La voce di Maisie giunse smorzata dal piano di sopra. «Non lasciarla comandare, Joe.»

Infilandosi il cappotto, Kate prese la borsa e disse: «Il tuo autobus si ferma in fondo alla via tra venti minuti esatti e, se lo perdi non ti accompagna nessuno.» Rimase in ascolto finché non sentì bofonchiare un «Sì, sì».

Una chiave girò nella serratura dell’ampia porta in legno di quercia e comparve Phyllis, con il cappello di lana ben calcato sulla testa. «Buongiorno a tutti e due.»

«Ciao, Phyllis, stiamo proprio per uscire. Ti sarei grata se ti assicurassi che Maisie esca di casa al massimo per le otto e venti.»

«Sarà fatto.»

Mentre Kate saliva nella macchina di Joe, si accorse che aveva uno sguardo strano. «Che cosa c’è?»

Lui si strinse nelle spalle. «Non sono affari miei, ma mi sembra che tu la stia mettendo giù un po’ dura con Maisie.»

«Ti riferisci alla faccenda dell’autobus?» Scosse la testa. «No, non è così. Tu non eri qui nel 2002. Scomparve una ragazzina poco più grande di lei. Stava andando a casa: autobus e un breve tratto a piedi. Quartiere tranquillo. Alla luce del giorno.» Kate lo guardò, allacciandosi la cintura di sicurezza. «Non aveva sbagliato niente, ma non arrivò mai a casa. Non dirlo: succede, lo so. So che Maisie ha bisogno di un po’ di libertà nell’andare e venire da casa, ma io devo essere certa che sia in grado di gestirla.»

«Sono scelte tue, Rossa. Andiamo dai signori Troy.»

Con indosso un paio di Ray-Ban per schermare il sole del mattino, Joe guidava seguendo il percorso indicato dal navigatore mentre il grosso del traffico scorreva lento lungo la corsia opposta, quella che portava in centro. Non era la prima volta che Kate pensava a quanto si sentisse rilassata in sua compagnia. Cioè, quando l’attenzione di Joe non era concentrata solo su di lei. Poi si mise a pensare all’imminente incontro con i genitori di Nathan Troy.

Quando arrivarono a parcheggiare su una strada fiancheggiata da casette moderne, a Castle Vale, si era già fatta un’idea chiara di ciò che le sarebbe servito sapere dai genitori di Troy. Espose brevemente la faccenda a Joe. «Che cosa ne pensi?»

«Va bene. Ci lavoreremo insieme.» Guardò fuori dal finestrino. «È la casa con la porta verde» disse, indicando una piccola abitazione oltre il marciapiede e la siepe. Tornò a guardare Kate. «Si chiama “villetta a schiera”, giusto?»

Kate gli rivolse un sorriso ironico. «Sai che stai veramente iniziando a parlare come si deve?»

«Faccio del mio meglio, signora.»

Uscirono dall’auto e attraversarono il marciapiede per poi percorrere un breve vialetto. Quando Kate suonò il campanello, dall’interno eruppe un fastidioso boato di latrati isterici, accompagnato da un ticchettio di unghioli su un pavimento. L’ammonizione lanciata da una voce maschile riportò il silenzio e un uomo oltre la cinquantina, infine, aprì la porta.

«Il signor Troy? William Troy?» L’uomo fece un cenno quasi impercettibile con il mento mentre Joe gli mostrava il distintivo. «Tenente Joe Corrigan, polizia di Rose Road, Harborne. Ci siamo parlati al telefono ieri. Questa è la mia collega, la dottoressa Kate Hanson.»

«Prego, entrate. Attenti al cane» disse lui, poi voltandosi esclamò: «Buono, Flossie». Kate oltrepassò la soglia, un po’ in ansia. Sulle scale c’era una piccola Yorkshire terrier che mostrava due file di denti aguzzissimi fra le labbra ritratte. «Non toccatela» raccomandò l’uomo. «Mia moglie è l’unica che ci riesce. Ora è in chiesa. Tornerà tra poco. Io ero in giardino.»

Percorsero il corridoio, attraversarono una piccola cucina e poi uscirono all’aperto. Benché fosse gennaio, non c’erano foglie cadute ammucchiate negli angoli né erbacce abbarbicate alle lastre di pietra. Il giardino era dominato da uno spazioso capanno. Kate e Joe seguirono l’uomo all’interno, dove trovarono un ambiente caldo e confortevole, con una vecchia poltrona e un bollitore elettrico. Kate si guardò intorno con discrezione, capendo subito che quello non era semplicemente un deposito. Era un rifugio. La scomparsa di Nathan aveva sicuramente devastato le vite dei suoi genitori e ora, vent’anni dopo, entrambi stavano ancora cercando di venirne a capo, ciascuno a modo proprio. Osservò il signor Troy che, senza guardarli negli occhi, tornò al banco da lavoro per rimettersi all’opera. Kate intuì che per lui la noncuranza era un modo come un altro per evitare di lasciarsi prendere da sentimenti che lo mettevano in difficoltà.

Poi parlò, sempre senza guardarli. «Volete sapere qualcosa del nostro Nathan.»

Joe rispose. «Ci dispiace molto per le recenti notizie riguardo a vostro figlio e per il vostro lutto, signore. Inoltre, siamo grati a lei e a sua moglie per averci lasciati venire qui. Ci serve il vostro aiuto.»

Sempre indaffarato, Bill Troy scosse la testa lentamente. «“Aiuto.” Mio figlio non ne ha più bisogno, non trovate?» Accostò un cacciavite all’oggetto metallico che aveva in mano.

Mentre parlava, Kate e Joe si scambiarono un’occhiata. «Dobbiamo farvi delle domande riguardo alla… situazione di Nathan al tempo della sua scomparsa, signor Troy» disse lei, decidendo di non pronunciare la parola «vita». «Può dirci qualcosa?»

«Non molto, no. Quando si è iscritto a quell’università non l’abbiamo visto più tanto spesso.» L’uomo si voltò a guardarli e fu allora che videro l’angoscia sul suo viso. «Se vi interessa, posso dirvi com’era mio figlio: era uno che imparava in fretta, intelligente, bravo nei lavori manuali e… pieno di vita!» Le parole gli uscirono di bocca come un’esplosione, colpendo i muri, la poltrona e le altre illusorie comodità di cui aveva stipato quel posto. Il viso pallido si era fatto cupo. «Avrebbe potuto fare… qualunque cosa. Se mi avesse dato retta, avrebbe imparato un mestiere. Ma no, era fissato con quella scuola d’arte.» Si voltò da un’altra parte, le spalle irrigidite.

Kate si era accorta di una serie di latrati frenetici che arrivavano dalla casa. Non voleva insistere, ma sapeva di doverlo fare. «Lei non era d’accordo con questa sua scelta?»

«Non fa certo differenza adesso, no? Ma io non capivo che attrattiva potesse avere su di lui quel posto. Non la capisco neanche adesso.» Tornò a guardarli. «Non è il mio mondo, capite. Tutto quello che so è che avrebbe potuto imparare un buon mestiere. Alla Jaguar Land Rover, dove lavoravo io, erano disponibili a prenderlo…»

«Ma non era ciò che voleva Nathan, Bill.» Tutti si voltarono in direzione della voce. Una donna dai capelli scuri, all’incirca della stessa età di Bill Troy, era in piedi sulla soglia, con le mani infilate nelle tasche del lungo cappotto nero, il viso pallido nella luce impietosa del cortile. La donna fece un cenno di saluto cordiale. «Entrate in casa. Ho messo su l’acqua.»

Quando scomparve, il marito era tornato a concentrarsi sull’attività che aveva interrotto con il loro arrivo. «Fate come dice lei. È più semplice.»

Kate e Joe percorsero il vialetto che riportava in casa ed entrarono nella piccola cucina. Flossie era sparita. La signora Troy stava mettendo in tavola un piatto di biscotti. «Tè o caffè? Ho solo quello istantaneo, però.» Si voltò verso un piccolo mucchio di fogli ben ordinati sul piano di lavoro lì vicino e poi li guardò di nuovo, tendendo loro una fotografia di grande formato. Kate la prese in mano. «L’ho recuperata per voi. È simile a quella che avevamo dato alla polizia quando… se ne andò. Vogliamo fare tutto il possibile per aiutarvi nella nuova indagine.» Guardò la foto, ora tra le mani di Kate. «Vi chiederei di restituircela quando avete finito, per favore.»

Kate esaminò la fotografia, che ritraeva Nathan Troy a mezzo busto. I capelli scuri scendevano fino alle spalle, gli occhi erano limpidi e schietti, la bocca piena e sorridente. Aveva superato da tempo quella fase della crescita in cui i visi maschili hanno tratti morbidi e asessuati, ma Kate pensò che se ne vedeva ancora qualche traccia. La signora Troy si avvicinò. «Qui aveva diciotto anni. Stava per iniziare gli studi al Woolner College.» Kate annuì, ora consapevole dell’origine del bell’aspetto di Nathan, dei capelli scuri, delle ciglia lunghe. Passò la foto a Joe.

La signora Troy si stava togliendo il cappotto. «Prego… sedetevi.» Attraversò la cucina per preparare il caffè, poi lo mise in tavola in tre tazze rosso acceso. «Lei è il tenente che ha telefonato. Mi chiamo Rachel, a proposito.» Guardò brevemente Kate.

Joe annuì. «Questa è la dottoressa Kate Hanson, una collega dell’Unità delitti insoluti di Rose Road. Vi saremmo grati se lei e il signor Troy ci diceste qualunque cosa possa tornarci utile a fare il quadro dell’ambiente frequentato da Nathan al tempo della sua scomparsa.»

Rachel si mise a sedere e li fissò per alcuni secondi prima di parlare. «Rispetto a quel che dice Bill, da me ne avrete un’immagine diversa. Bill sta ancora lottando con questa cosa. Lo stiamo ancora facendo entrambi, ma… be’, ci avete già parlato. Lui è infuriato perché l’ha perso. Vuole dare la colpa a qualcuno. Lui voleva Nathan con sé. A lavorare in fabbrica. Pensa che se Nathan l’avesse fatto, se avesse scelto l’apprendistato da operaio, sarebbe ancora qui.» Abbassò lo sguardo sul tavolo. «Hanno licenziato Bill a cinquantasette anni e da allora non ha più lavorato.» Fece una pausa, poi riprese a parlare con voce ferma, a testa alta. «L’altra differenza tra me e Bill è che lui pensa che anche noi siamo delle vittime. Ma io gli dico che non lo siamo. Gli dico che noi siamo testimoni della vita di Nathan, del fatto che è stato qui.» Bevve un sorso di caffè. «C’è qualcosa in particolare che volete sapere?» domandò agli interlocutori, che erano rimasti in silenzio.

Joe rispose: «Sì, signora. Abbiamo i fascicoli della precedente indagine. Sappiamo che, nel periodo in cui studiava a Woolner, Nathan divideva un appartamento con altri tre studenti. Può dirci qualcosa di loro?»

Rachel Troy si alzò per andare a prendere una scatola in un comò. Quando anche Joe si alzò, lei si voltò a guardarlo. «Tutto a posto, ce la faccio. Non è pesante.» Mise sul tavolo la grossa scatola, lucida e nera. «La polizia ha preso i principali effetti personali di Nathan e li ha trattenuti per un po’.» Tenne per un attimo la mano posata sul coperchio, poi lo sollevò. «Queste sono le poche cose che erano rimaste nella sua stanza. La polizia le aveva già esaminate, e allora ho chiesto se potevo riaverle.»

Kate e Joe guardarono nella scatola e videro pile di piccoli schizzi tracciati su carta da disegno. Rachel Troy fece lo stesso. «Nathan era un vero talento. Penso che l’avesse preso un po’ da me, si era mostrato bravissimo a disegnare e a dipingere fin dalla primissima infanzia. Era figlio unico» aggiunse, posando sul tavolo due studi dal vero realizzati con mano abile e raffinata. Kate e Joe ascoltarono la donna raccontare di averne fatte delle copie, subito incorniciate da un professionista e messe in mostra in chiesa e nella biblioteca di quartiere, nei mesi successivi alla scomparsa di Nathan. «Alcune delle mostre sono anche apparse al notiziario locale.» Sollevò lo sguardo su di loro. «All’epoca abbiamo fatto tutto il possibile per tenere viva l’attenzione della gente sulla scomparsa di Nathan.» Indicò i due disegni. «Questi sono quelli che volevo mostrarvi. Due dei ragazzi con cui abitava Nathan.» Ne prese uno e lo porse a Kate. «Questo è Alastair Buchanan. Era di Edimburgo.» Kate osservò il ragazzo castano, con sopracciglia folte e inarcate che aggiungevano un che di imperioso al viso rotondo.

«Nathan e Buchanan erano particolarmente amici?» chiese Joe.

Rachel Troy scosse la testa. «Non penso. Non ricordo che Nathan mi abbia mai detto qualcosa di specifico su di lui. L’ho incontrato una volta sola, dopo che si erano tutti trasferiti in quell’appartamento.» La donna raccontò che impressione le avesse fatto Buchanan a quel tempo: un tipo un po’ snob, un po’ borioso. Poi indicò l’altro schizzo. «Quello è Joel Smythe. Lui sembrava davvero simpatico. È anche passato qui a farci visita. Lui e Nathan sono stati amici per un po’.»

Kate e Joe abbassarono lo sguardo per osservare il giovane dai capelli biondi e dal viso mite. Kate pensò che sembrava più giovane dei suoi… quanti anni poteva avere lì, diciotto? «Non sono rimasti amici?»

Rachel Troy le rivolse un’occhiata sorpresa. «Oh, capisco che cosa intende. Il primo anno erano sempre insieme, quello successivo un po’ meno. A volte, quando Nathan veniva a trovarci, il primo anno, portava Joel con sé. Ma poi le cose sono cambiate. Non abbiamo più rivisto Joel, ma Nathan non ci ha mai detto perché.» Scrollò le spalle. «E a quell’età non si fanno domande di questo genere, no?»

«E che cosa ci dice dell’altro coinquilino?» chiese Kate.

La donna infilò di nuovo una mano nella scatola e scorse i fogli che c’erano dentro. «È qui, da qualche parte… Ah, eccolo.» Prese un terzo schizzo e lo mise in mano a Kate. «Quello è Matthew Johnson. Che io sappia, lui e Nathan andavano abbastanza d’accordo. Seguivano gli stessi corsi alle belle arti. Gli altri due invece facevano qualcos’altro, “Arte nell’archeologia” o qualcosa del genere. Non penso che Nathan e Matthew fossero diventati amici particolarmente intimi. Matthew faceva parte di una specie di gruppo teatrale che Nathan chiamava “Am-dram” e cantava anche in un coro. Quel genere di cose non interessavano a Nathan.»

«E come andava la convivenza di questi quattro ragazzi?» domandò Joe.

Rachel Troy scoppiò a ridere, descrivendo come, nelle poche occasioni in cui era stata in casa loro per lasciare della biancheria per Nathan, l’avesse trovata piuttosto disordinata. «Una volta avevo messo anche in ordine, ma a Nathan la cosa non era piaciuta, quindi non l’ho più fatto.»

Quando Kate chiese se Nathan sembrasse soddisfatto del corso di belle arti, la donna confermò con un sorriso e un cenno di assenso. «Lo adorava. Il primo anno è stato all’altezza delle sue aspettative e non vedeva l’ora di iniziare il secondo.» Il silenzio che seguì fu riempito dal ticchettio dell’orologio appeso al muro. «È passato così tanto tempo, vero? 1993.»

«E saprebbe dirmi qualcosa degli insegnanti del Woolner College? Nathan ci andava d’accordo?» Questa volta fu Joe a parlare. Rachel Troy si illuminò in viso. «Moltissimo. I due insegnanti principali li ho incontrati una volta in un open day. Il suo tutor, il dottor Wellan, era un uomo simpatico. Con i piedi per terra. E anche molto gentile. Sapete, è venuto a trovarci dopo che Nathan… Solo una volta, per dirci che era dispiaciuto che Nathan se ne fosse andato.» Li guardò entrambi. «A quel tempo tutti, inclusa la polizia, erano convinti che Nathan avesse deciso di andarsene da qualche altra parte.» La donna scosse la testa. «Noi… io sapevo che non era così. Avevamo un rapporto molto stretto, io e Nathan. Non l’avrebbe mai fatto. Non a me. Non a suo padre.» Ci fu un altro breve silenzio, poi: «Che cosa stavo dicendo? Oh, sì. L’altro insegnante. Era più altolocato del dottor Wellan ed era decisamente più vecchio. Tipo un professore. Non è mai venuto qui e ora il nome mi sfugge, ma so che a Nathan piaceva.»

Joe annuì. «Nathan usciva mai con qualche ragazza?»

Rachel Troy sorrise. «Aveva diciannove anni… ovvio che usciva con le ragazze. A me aveva parlato di una o due in particolare. Era molto aperto riguardo a quel lato della sua vita. Sapevo che gli piacevano un paio di compagne di corso, e poi ce n’erano altre di cui era amico. Una in particolare.»

«Si ricorda qualche nome?» chiese Joe.

«Quello sì. Il nome di quella di cui era davvero molto amico. Me lo ricordo perché era insolito: si chiamava Cassandra.»

Kate sollevò lo sguardo dagli appunti. «Di lei Nathan le ha mai detto qualcosa di specifico?»

La signora Troy fece un piccolo cenno di diniego. «Non molto. Mi ricordo che mi raccontava che parlavano molto e che lei aveva una specie di problema. Mi ero fatta l’idea che si trattasse della sua salute. Adesso che ci penso, una volta Bill l’ha incontrata.»

Kate continuava a prendere rapidi appunti. «Nathan non aveva problemi o difficoltà particolari al tempo della sua scomparsa?»

«Non che io sappia.» La donna guardò Joe e poi Kate. «Mi parlava ogni tanto di un altro studente, uno che non gli andava a genio. Ma non sembrava una cosa seria. Quando era a casa, qualche volta diceva: “Oh, quel Rod si è rifatto vedere, che palla che è”. O qualcosa del genere. Però non mi era sembrato che lo ritenesse un vero problema. Sembrava più che altro che lo considerasse uno scocciatore.» Abbassò lo sguardo sulle mani che stringevano la tazza. «Quando qualcuno fa parte della propria famiglia si pensa che ci sarà per sempre. Forse avrei dovuto fare maggiore attenzione alle sue parole.» Il suo sguardo si allontanò oltre la finestra, verso il giardino. Le scese una lacrima sulla guancia.

Kate parlò in tono sommesso. «Non ha mai incontrato quello studente?»

«No» rispose la donna, passandosi una mano sul viso.

Joe guardò Rachel Troy. «Le hanno detto dove è stato trovato Nathan, signora?»

Lei annuì. «A dire il vero non conosciamo quel posto. Abbiamo pensato che potevamo andare a vedere, ma poi…» Lasciò la frase a metà e poi si strinse un poco nelle spalle. «È… bello?»

Joe annuì, accompagnando le sue parole con piccoli gesti delle mani. «Non è un parchetto di periferia. È una grande distesa di terreno aperto, con sentieri da trekking, da corsa e piste ciclabili. Ci sono dei boschi e un lago. Le viene in mente una ragione per cui Nathan sarebbe potuto andare in un posto del genere… nel mese di novembre?»

La donna aggrottò la fronte. «Nathan non era uno che andava a correre. E non aveva la bici. Magari ci andava per disegnare, ma non mi sembra una cosa tanto probabile da fare a novembre, no?» Fece spallucce. «Che gli avessero dato per compito di disegnare qualche paesaggio invernale o roba simile?»

Kate ascoltò Joe, che scelse con cura le parole. «Il parco è un bel posto, soprattutto d’estate, ma in altri momenti dell’anno le cose cambiano. Diventa in parte luogo d’incontro per persone problematiche, che hanno a che fare con l’uso di droghe e…»

Rachel Troy rispose a voce bassa ma ferma. «Nathan non prendeva droghe, se è questo che vi state chiedendo. Non erano cose che gli interessavano. Era il classico diciannovenne, anzi quasi ventenne. A dire il vero, oserei addirittura dire che per la sua età era un po’ moralista. Era il tipo di persona che prendeva apertamente posizione contro le cose che non gli piacevano o che disapprovava. Le droghe erano tra queste.»

La porta della cucina si aprì ed entrò il signor Troy. Joe gli fece un breve riassunto della conversazione. «C’è qualcosa che vorrebbe aggiungere o che vorrebbe dire, signore?»

Attesero che l’uomo attraversasse la stanza per raggiungere il lavello, che si lavasse le mani e cominciasse ad asciugarle con la carta da cucina. «Io e Nathan non andavamo troppo d’accordo in quel periodo. Ci provavamo entrambi, ma… Proprio poco prima di scomparire, mi aveva chiesto di fare una gita a Londra insieme a lui. Voleva farmi vedere qualcuno dei musei più importanti, la National Gallery e qualcos’altro. Sapevo che cosa aveva in mente: se avessi capito qualcosa in più di arte, allora avremmo avuto un argomento in comune. Così gli ho detto di sì e ho comprato i biglietti del treno per l’undici novembre.» Sollevò la testa e guardò fuori dalla finestra. «Ma non ci siamo mai andati. Forse quel giorno aveva deciso che aveva di meglio da fare.» La moglie gli posò una mano sul braccio. Lui la guardò. «Hai parlato con padre O’Ryan in chiesa?»

«Sì, mi ha ascoltato.»

«Posso?» domandò Kate. Vedendo il cenno d’assenso di Rachel Troy, Kate infilò una mano nella scatola. «Chi è questa?» chiese, mostrando loro il ritratto di una ragazza realizzato a pennino e acquarello. Era bionda, eterea e straordinariamente bella.

«È lei, vero, Bill?»

«Mmm. Era una strana.»

«Come mai dice così, signor Troy?»

L’uomo si rivolse a Kate. «L’ho incontrata una volta, quando sono andato in quella casa. Avevano dei problemi di elettricità, così sono passato a vedere. E lei era lì.» L’uomo tacque.

«L’ha appena descritta come “strana”, giusto?» intervenne Joe.

«Non saprei come altro descriverla. Era lì ma… non c’era, se capite cosa intendo. Gli altri mi hanno salutato tutti, ma lei no. A esser sincero, all’inizio ho pensato che fosse un po’ altezzosa, ma poi mi sono fatto un’idea diversa. La mia impressione fu che avesse preso qualcosa.»

Kate rivolse la domanda successiva a entrambi i genitori. «Per voi sarebbe un problema se prendessimo questa scatola e la trattenessimo nel corso delle nostre indagini? Vi diamo la nostra parola che ce ne prenderemo cura e ve la restituiremo intatta.»

I due si scambiarono qualche breve occhiata, poi Rachel Troy rispose per entrambi: «Va bene, se può aiutarvi a scoprire qualcosa».

Joe prese la scatola. Mentre si preparavano ad andarsene, Kate provò un forte senso di compassione per i genitori di Nathan Troy. «Sentite, andremo fino in fondo, e non ci fermeremo finché non avremo scoperto cos’è successo a Nathan» disse, cercando di scacciare dalla mente l’immagine dell’ispettore Roger Furman, direttore dell’Unità delitti insoluti, noto in tutta Rose Road come “Facciadiculo”. Furman e Kate non erano mai andati d’accordo: lui si ostinava a esigere risultati immediati con il minimo dispendio economico e tendeva a chiudere le indagini appena riaperte, se i risultati non arrivavano alla velocità da lui desiderata. I rapporti erano diventati tesissimi in occasione del precedente caso dell’Udi, quando lui e Kate avevano litigato apertamente più di una volta. Kate aggrottò la fronte, sentendosi addosso lo sguardo di Joe. Sapeva di aver fatto una promessa che forse non sarebbero riusciti a mantenere.

Rachel Troy tese la mano verso Kate, che la prese tra le sue. «Ora che vi ho incontrati, credo che farete del vostro meglio per il nostro Nathan. Tu no, Bill?» L’uomo fece un cenno quasi impercettibile. «Qualunque cosa vogliate sapere, qualunque cosa possa esservi d’aiuto, chiamateci.» La donna li accompagnò alla porta. «Non è giusto che i figli muoiano prima dei propri genitori, no? Siamo grati del fatto che sia stato trovato e che d’ora in poi avremo un posto dove… andarlo a trovare, ma ciò che ci importa davvero, adesso, è che stiate lavorando di nuovo al caso.»

Mentre la Volvo correva sull’ampia carreggiata, gli occhi di Kate erano fissi sulla strada. Sentiva gli occhi di Joe posarsi su di lei a intervalli regolari. «Come diavolo fanno ad andare avanti? A continuare a vivere dopo ciò che hanno saputo?» mormorò tra sé, poi lanciò un’occhiata a Joe. «Che cosa pensi della loro descrizione di Nathan?»

Con lo sguardo fisso sulla strada, lui rispose: «Un giovane talentuoso e simpatico, dai solidi princìpi morali. Forse in queste situazioni tutti i genitori dicono così.»

Kate gli rivolse un’occhiata sorpresa. «Non ci credi?»

«Non ho detto questo, Rossa. Parleremo con altre persone che lo conoscevano. Così avremo il quadro completo.»

Kate si appoggiò al sedile, con in mente una definizione che aveva sentito una volta, i figli come «ostaggi del fato». Guardò fuori dal finestrino mentre Joe oltrepassava lo spartitraffico di Five Ways e poi il quartiere di Edgbaston, con le sue case georgiane e gli alberi spogli. Dopo diversi minuti, la Volvo entrò nel vialetto di casa sua. Avrebbe preso la sua macchina e sarebbe andata all’università. La maggior parte di noi decide di accettare i rischi e le responsabilità dell’essere genitori. E non cambierebbe la propria situazione per niente al mondo. Vallo a dire a Bill e Rachel Troy.

Niente di umano
titlepage.xhtml
index_split_000.html
index_split_001.html
index_split_002.html
index_split_003.html
index_split_004.html
index_split_005.html
index_split_006.html
index_split_007.html
index_split_008.html
index_split_009.html
index_split_010.html
index_split_011.html
index_split_012.html
index_split_013.html
index_split_014.html
index_split_015.html
index_split_016.html
index_split_017.html
index_split_018.html
index_split_019.html
index_split_020.html
index_split_021.html
index_split_022.html
index_split_023.html
index_split_024.html
index_split_025.html
index_split_026.html
index_split_027.html
index_split_028.html
index_split_029.html
index_split_030.html
index_split_031.html
index_split_032.html
index_split_033.html
index_split_034.html
index_split_035.html
index_split_036.html
index_split_037.html
index_split_038.html
index_split_039.html
index_split_040.html
index_split_041.html
index_split_042.html
index_split_043.html
index_split_044.html
index_split_045.html
index_split_046.html
index_split_047.html
index_split_048.html
index_split_049.html
index_split_050.html
index_split_051.html
index_split_052.html
index_split_053.html
index_split_054.html
index_split_055.html
index_split_056.html
index_split_057.html
index_split_058.html
index_split_059.html
index_split_060.html
index_split_061.html
index_split_062.html
index_split_063.html
index_split_064.html
index_split_065.html
index_split_066.html
index_split_067.html
index_split_068.html
index_split_069.html
index_split_070.html
index_split_071.html
index_split_072.html
index_split_073.html
index_split_074.html
index_split_075.html
index_split_076.html
index_split_077.html
index_split_078.html