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Nel 39 d.C. un altro giovane, anche lui bruno e con gli occhi neri e lucidi, salì per quello stesso sentiero di montagna tra le rocce. Impaurito, si fece strada in mezzo alle piccole case fatte di tronchi, verso il tempio di Diana-Artemide.

«Eyal! Azar! Aiuto!». Si voltò indietro. Vide l’orribile uomo che lo inseguiva, scortato da una folla di fanatici.

«Catturatelo! Quello non è Giovanni il seguace di Cristo! Io sono Giovanni!».

Il giovane si nascose in una sala del tempio. Il cuore gli batteva più forte che mai.

«Quell’uomo vuole uccidermi! Predica nelle piazze usando il mio nome. Dice di essere lui l’apostolo di Gesù Cristo».

Nessuno gli prestò ascolto.

Su quelle rocce e sui passi di quel giovane trascorsero settant’anni.

Giovanni apostolo morì, così come l’uomo che lo aveva perseguitato, Cerinto.

Nel 130 d.C. un altro uomo, di una nuova generazione, Policarpo di Smirne, disse ai suoi giovani discepoli: «L’apostolo Giovanni non è più qui per raccontare ciò che accadde davvero, né come fu assassinato». Guardò in lontananza. «Ricordo che quando ero bambino, più piccolo di voi, lo ascoltai quel Giovanni, quello vero. E allora egli ci disse, con molta paura, che c’era un uomo che temeva. Si chiamava Cerinto, ed egli dovette nascondersi nel tempio perché quell’uomo voleva assassinarlo».

Su quella rupe del monte Chora passarono altri settant’anni.

Su quelle rocce adesso più fredde, un altro uomo, di una nuova generazione (195 d.C.), procedette fino alla vetta disabitata, verso il luogo in cui non esisteva ancora alcun monastero. Ireneo di Lione, vescovo dell’omonima città, sussurrò ai suoi alunni: «Nei primi giorni dopo la morte di Cristo ci fu un grande discepolo, di nome Giovanni. Era il più amato di tutti gli apostoli. Quando l’imperatore romano Domiziano intraprese le persecuzioni contro i cristiani, Giovanni si rifugiò qui su quest’isola, su questo monte, che era un tempio alla dea Diana».

Il vescovo guardò la vetta selvaggia, coperta dai cipressi. Camminò sulle foglie. «Secondo Policarpo vi fu un uomo che Giovanni temette durante gli ultimi anni della sua vita: Cerinthus, o Cerinto».

«Cerinthus?», chiese uno degli alunni. «Chi era Cerinthus?».

L’anziano vescovo di Lione della provincia romana di Gallia, l’attuale Francia, scrutò le scure nubi rossastre all’orizzonte sul mar Egeo.

«Cerinto è l’autore della più spaventosa eresia di tutti i tempi». Fissò il suo discepolo. «L’eresia sulla fine del mondo. È una blasfemia di origine persiana».

Continuò a salire calpestando il tappeto di foglie secche tra i cipressi, in direzione della grotta dove un tempo Giovanni visse i suoi ultimi giorni. Era lì che avrebbero trovato la verità, il segreto della Bibbia.

Sulle quelle stesse rocce trascorsero altri cinquant’anni. Ireneo di Lione morì, e così tutti i suoi discepoli.

Un altro uomo, di una nuova generazione, avanzò sul monte Chora. Gli alberi erano stati abbattuti. L’uomo osservò i nuovi edifici in costruzione sulle rovine del tempio arcaico di Diana: le moderne scuderie di Decio. Era il vigoroso vescovo di Alessandria, città nel Nord dell’Egitto. Era il 250 d.C. ed egli aveva sessant’anni. Lo accompagnavano i suoi venti vescovi minori. Dionisio era il papa di Alessandria, una delle tre massime sedi del cristianesimo quando Roma non era ancora la sede unica.

«Alcune persone hanno ripudiato il testo in circolazione, quello che chiamano Apocalisse o Rivelazione della fine del mondo». Continuò a salire per la montagna. «Quel libro non fu scritto da Giovanni, né si tratta di una rivelazione».

I suoi accompagnatori rimasero scioccati.

«Ma… Non è Giovanni apostolo l’autore di quel testo? Le prime parole dicono: “Rivelazione di Gesù Cristo… al suo servo Giovanni…”».

San Dionisio papa sorrise. «Se voleste mentire, che nome utilizzereste? Non solo l’autore di quel libro non è nessuno dei discepoli di Gesù, ma non è nemmeno un cristiano. Stanno ingannando milioni di persone».

I vescovi si guardarono l’un l’altro e scossero la testa. Dionisio il Grande disse loro: «Colui che scrisse il Libro dell’Apocalisse è un impostore». Fece una pausa. «Qualcuno ha tentato di imporre questa eresia persiana per modificare la religione di Cristo. Se voi non mi aiutate a scoprire la verità, allora questa aberrazione persiana diventerà realtà. In futuro non sapranno distinguere la verità dalla menzogna».

Il loro proposito non andò a buon fine.

Passarono milleottocento anni.

Sulla montagna sorse una città: Chora, fatta di gesso e malta. Al centro fu eretto il gigantesco castello marroncino. Nel mondo nacquero e caddero cinque imperi, fino ad arrivare al secolo XXI.

Il vento soffiò il tanfo di un elicottero PEGASOS ISR UAV dell’aviazione ellenica. Un altro giovane, di una nuova generazione, il sacerdote cattolico Creseto Montiranio, continuava a salire le scale di roccia tra le tortuose pareti bianche, verso l’attuale circondario di Chora, sudando.

Respirò la brezza fresca del mar Egeo, insieme all’odore di olio d’oliva e di basilico. Patmos era una delle maggiori attrazioni turistiche del pianeta, grazie alla storia di Giovanni quale autore del Libro dell’Apocalisse. Oltre il monastero, Creseto osservò gli elicotteri dell’ONU.

«Sia fatta la tua volontà, Signore dell’universo, Signore Gesù Cristo. Ora che incombe la fine dei tempi io sono il tuo servo. Io sono Ha Mash-hit. Io sono il tuo angelo sterminatore. I primogeniti pagheranno con il sangue, perché osano indagare sull’origine della Bibbia».

L’enigma dell’ultima profezia
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