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Indietro nel tempo – nell’anno 60 a.C. – la Redattrice R, Radapu, entrò legata per i polsi e trascinata come bestiame sul pavimento lastricato della torre d’avvistamento, dentro le mura fortificate del monte Sion.
«Rwnd! Yld! Mi hai tradito, maledetto! Maledetto! È una spia!», gridava contro il giovane schiavo greco.
A quelle accuse, Talete di Mileto rispondeva tranquillamente: «Non datele retta: è posseduta. Ha diffamato anche il sacerdote Chelkia. Chi di voi mi pagherà i quattro pezzi d’argento?».
La guardia dai capelli biondi, Tarkullu, trascinava la scriba per i capelli lungo il camminamento di pietra.
«Ti toglierò lo spirito come ho fatto a tuo fratello. È sempre stato un verme e ora sta sfamando Ereshkigal, la regina degli inferi, e ben presto la nutrirai anche tu».
La bella Radapu, trascinata per i capelli ricci, sussurrava tra sé e sé: «Non riesco a crederci! Non ci credo! Sono di nuovo in questo maledetto palazzo!».
Poco più in là, lo schiavo greco continuava a gridare alle guardie. «Dove sono i miei pezzi d’argento? Dov’è il mio denaro? Mi avevate promesso quel maledetto denaro!».
In quel momento fu afferrato da dietro da un uomo anziano, alto e calvo, che lo imprigionò tra due grandi lance nere.
«Sta’ calmo, straniero!».
«Simonide».
L’uomo gli bisbigliò. «Come mi disse il mio maestro Archiloco di Paros, che riposi nell’Ade, “nella mia lancia è il mio pane nero. Nella lancia è il vino di Ismaro e appoggiato alla mia lancia ne bevo”», e gli ruttò nell’orecchio.
«Il tuo pane nero non lo vedo», rispose lo schiavo prendendolo per un braccio. «Mi serve sapere tutto quello che sai. Hanno già giustiziato Kesil Parus?»
«Ancora no».
«Dove lo tengono?». Si girò verso la fine del corridoio di roccia.
«Ti stanno cercando, accidenti». Simonide si guardò intorno. «Se continui con questo chiasso, ci farai scoprire tutti. Sii discreto», e prese ad avanzare.
L’imponente vecchio, con tutti i suoi settantaquattro anni, trascinò lo schiavo in avanti per un braccio, tenendo la lunga lancia nera rivolta verso l’alto.
«Le donne e le loro razze», disse cantilenando. Guardò gli uomini guerci o storpi buttati a terra nel corridoio. «Fratelli! Dio creò le donne di diverse razze, per farci scegliere. Una la creò dai maiali e a casa sua tutto si muove grufolando, ma lei, lurida, con i vestiti sporchi, in mezzo alla sporcizia è sempre affamata!».
Tutti risero mostrando bocche sdentate.
«Dicci di più, greco! Dicci di più, Simonide di Amorgos!».
In fondo al corridoio, alla musica già decadente si aggiunsero i tamburi, rendendola ancora più martellante.
La maggior parte dei mercenari greci e fenici, camuffata da servi di palazzo, cominciò a prendere posizione.
«Dicci di più, samiano! Non ti fermare!».
Simonide continuò a canticchiare.
«Un’altra razza di donna, Zeus la plasmò dalla maligna volpe, sa tutto lei! E ogni volta ci si presenta con un umore diverso».
«Mia moglie è così!», gridò uno.
«Portami fino alla Cisterna ciclopea, dal sacerdote fariseo», sussurrò lo schiavo.
Il vecchio grande e vigoroso continuava: «Ci sono altre razze di donna!», avanzava. «Il dio ne creò una dalla cagna. Abbaia come lei! E come la cagna vuole sempre sentire tutto! Deve impicciarsi di tutto, annusa e si infila dappertutto e abbaia anche quando non vede nessuno!».
I mendicanti cominciarono a ridere a crepapelle, battendo contro le pareti.
Simonide continuò.
«Un’altra ancora è stata plasmata dal fango dagli dèi dell’Olimpo. Ed è uscita ottusa, e a noi ce l’hanno data così perché la sopportiamo fino alla fine dei tempi!».
In fondo al corridoio comparvero i cucinieri spingendo grossi tegami fumanti. A Simonide arrivò in faccia, proprio sull’occhio guercio, un mutandone bagnato. Se lo tolse sorridendo e, tra le risate dei soldati e dei mendicanti, se lo mise in testa come un berretto.
Subito gli si parò davanti un giovane coperto di sangue e con il viso pieno di tagli.
«Simonide! Lo so cosa stai facendo! Prendetelo! È una spia dell’Egitto!».
«Per Zeus… Alceo? Alceo di Mitilene?»
«So perché sei venuto!», gli gridò Alceo davanti alle guardie ebraiche e ai soldati. «Questo qui è di Amorgos, una colonia dell’isola di Samo, in Grecia! E quell’altro è di Mileto! Lavorano per l’arconte Dracone di Atene, sono alleati del faraone Necao! Prendeteli, adesso! Sono spie dell’Egitto!».
L’intero corridoio risuonò di grida.
“Ma perché deve sempre finire in violenza?”, pensò Talete di Mileto sfoderando il coltello. Da dietro cominciarono a circondarlo le guardie di Babilonia della guarnizione comandata da Nabopolassar, assegnata al controllo della Giudea.
Senza mai lasciare il suo amico Simonide, sferrò un violento colpo in faccia a Mitilene.
«Sei tu il bastardo traditore! Come hai potuto venderti a quel maledetto Nabopolassar di Babilonia, un tiranno che ha in odio la Grecia? Tu e quel disgraziato di tuo fratello ci porterete i Babilonesi alle porte della Ionia e manderete definitivamente in rovina il nostro mondo. È qui che dobbiamo fermare Babilonia!».
Gli arrivò un colpo di lancia dietro la nuca.
«Parli di me, maledetto?».
Il giovane schiavo di Mileto si girò lentamente.
«Antimenide?», esclamò strofinandosi la nuca.
«Lascia stare mio fratello», gli intimò quello puntandogli la lancia alla trachea, appena sotto la barba. «Lo sanno tutti cosa ci fai qui, fenicio. Hai rovinato tutto. Hai fatto saltare tutta l’operazione segreta del tuo maledetto re Trasibulo e del suo faraone. Che ci si poteva aspettare da uno che ama sempre attirare l’attenzione in tutto quello che fa? Sei in arresto, bastardo!».
Il giovane di Mileto guardò a terra e deglutì.
«Sono fenicio, ma sono anche greco. Ti sembro uno che vuole sempre attirare l’attenzione?». Sorrise ad Antimenide e guardò con cautela verso il soffitto di roccia. Tra le fessure gli apparvero linee geometriche luminose, che sembravano brillare di luce propria: angoli, ellissi intersecate nello spazio… matematica.
Visualizzò una parabola, fitta di numeri in movimento.
«In realtà la mia passione è la matematica. Lo sapevi?», disse ad Antimenide.
«Arrestatelo! È una spia! È al servizio degli Egizi!».
«Lo sapevi che sopra di noi sta passando un arco, un semicerchio, e che da qui a lì, sulla punta di questo arco, c’è sempre un triangolo?»
«Che stai dicendo?».
Talete diede un colpo laterale alla lancia e la strappò ad Alceo.
«Non consideri mai le diagonali». Gliela puntò al collo. «È questo che chiami “attirare l’attenzione”? Inginocchiati, servo di Babilonia! Preferisco quattromila volte Necao d’Egitto a Nabopolassar di Babilonia!».
«È inutile, milesio. Sei già morto», gli disse Alceo, il fratello di Antimenide. Gli puntò la lama al collo. «Guarda tutti questi soldati. Sono tutti agli ordini di Nabucodonosor e suo padre. Questo luogo appartiene già a Babilonia, come tutta la Palestina e presto anche il resto del mondo. Sei caduto in trappola. Sono tutti venduti, qui dentro. Sono larve di Babilonia».
«Compreso te, quindi», decretò Talete.
I mercenari nel corridoio scoppiarono a ridere.
«È vero, milesio». Sollevarono tutti le piccole sfere di agata di Persia, lucide come occhi: le gemme di Nabucodonosor.
Talete si guardò intorno, verso la fine del corridoio. Vide la Redattrice R, Radapu, trascinata per i capelli dalle guardie.
«Che pensi di fare?», gli chiese Alceo di Mitilene. «Tutti questi greci ormai sono al servizio di Babilonia. Non è vero, fratelli?», gridò alla folla tutt’intorno. «Non è forse così? Chi di voi catturerà per primo Talete di Mileto e lo consegnerà vivo al sacerdote Hilkiyahu? Ti lapideranno insieme a lei, e insieme al principe prigioniero».
«Non vi capisco», sussurro Talete. Li guardò a uno a uno. «Babilonia rappresenta tutto il contrario di quello che siamo noi Greci. Oppressione, superstizione, magia nera! Non amate anche voi la libertà di pensiero, di parola?»
«Io preferisco il denaro», gli bisbigliò all’orecchio l’amico, il vecchio imponente Simonide di Amorgos. «Mi dispiace, fratellino».
Talete sospirò.
«Anche tu? Be’, è un bello schifo».
In fondo al corridoio le guardie babilonesi cominciarono a legare Radapu con le braccia dietro la schiena.
«Preparatevi a bruciarla viva! È una donna civetta!».
Il muscoloso Simonide disse a Talete all’orecchio: «Come diceva il mio defunto maestro Archiloco, che marcisca anche lui nell’Ade: “Uno dei saiani di Tracia si diletta ora con lo scudo che lasciai inavvertitamente cadere in un cespuglio, ed era pure buono! Ma perlomeno sono potuto fuggire e sono qui, ancora vivo. Che mi importa dello scudo? Ne troverò un altro che non sarà da meno”».
Il ripugnante Antimenide gli bloccò le braccia.
«Smettila di parlare come un ubriaco, vecchio putrefatto. Consegnami il fenicio».
«Hai ragione», gli disse Simonide. «Non devi continuare a starmi a sentire. Parlo come un ubriaco», e gli trafisse la testa con la lancia dal basso verso l’alto. La punta penetrò la carne al di sotto della mascella, gli trapassò la lingua tagliandola a metà e, attraverso il palato, arrivò al cervello. Gli occhi di Antimenide si rovesciarono ai lati.
«Maledetto!», gridò il fratello Alceo.
«Corri dalla ragazza, fratellino!», gridò allora Simonide a Talete. «Fai come in Lidia! Io cerco il sacerdote fariseo, prima che questi bastardi lo uccidano e cancellino tutto!», e si slanciò in avanti. Cominciò a sferrare colpi con la lancia. «In questo momento, in questo palazzo, proprio adesso, comincia la guerra tra Egitto e Babilonia. E vincerà l’Egitto, in alleanza con la Grecia, perché tutti i Paesi del mondo ormai sono parte di questa guerra! Perché oggi è in gioco il futuro del mondo, maledizione!».