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Milletrecento chilometri più a sud, nel rovente Egitto, settecento anni indietro nel tempo, il giovane faraone Akhenaton osservava dalla finestra del suo palazzo di piante appena costruito ad Amarna, le grandi macchine di carico e scarico.
Sorrise tra sé e sé.
«Che te ne pare, mio caro Hbsw-Bht-Yah-Mes?», chiese al suo giovane ministro di governo, con i capelli neri e bagnati.
«Ci sono dei problemi», rispose lui.
«Problemi?».
Il giovane Yah-Mes gli avvicinò due tavolette calde di fango cotto.
«Lettera di Burnaburiash, re di Babilonia, per voi», e gli lesse i caratteri cuneiformi incisi sopra. «“Per Naphhururia Neferuu Kheperi Ra, grande faraone d’Egitto. Così vi parla vostro fratello Burnaburiash, amico di vostro padre. Io e la ma casa, i miei cavalli, i miei carri, i miei nobili e la mia terra, stiamo bene. Che stia bene anche il giovane Akhenaton e la sua casa, i suoi cavalli, i suoi carri, i suoi notabili e la sua terra, perché voi sapete che fui amico del vostro grande padre Amen-Hotep III. Sono in collera con voi, fratello Akhenaton, perché non vi siete interessato della mia salute. Sono stato male. Giovane faraone, non mi avete inviato una sola lettera, né un dono, né un solo messaggero da quando siete salito al trono per sapere come sta il mio regno. Non è così che mi trattava vostro padre, il grande Amen-Hotep III. Aspetto una vostra risposta”».
Akhenaton abbassò gli occhi.
«Burnaburiash è in collera. Gli avete mancato di rispetto. Dovete mantenere buoni rapporti con coloro che furono alleati dell’Egitto. Non farlo vi pone in grande pericolo», gli consigliò il suo ministro.
Il giovane faraone si alzò lentamente dal suo seggio di paglia.
«Io non sono mio padre. Non sono venuto per raccogliere ancora più potere. È finita». Lo guardò negli occhi. «Non lo capisci? Io sono l’uomo di Dio. D’ora in poi tutto cambierà».
Yah-Mes tornò a guardare a terra, scuotendo il capo.
«Burnaburiash è indignato». Riportò davanti agli occhi la tavoletta di argilla. «“Fratello Naphhururia. Non dovrebbe sapere il mio fratello che sono ammalato? Perché non si preoccupa il mio giovane fratello Akhenaton di me come faceva suo padre? Desiderate forse rompere i rapporti con me? Desiderate forse una guerra con me?”».
Akhenaton riaprì gli occhi.
«È così grave?»
«C’è dell’altro». Il giovane Yah-Mes prese un’altra tavoletta di fango scuro. «Questa ve la manda Ashur-Uballit I, re di Assiria, nemico di Babilonia. Burnaburiash lo ha soggiogato con le truppe e lo obbliga a pagargli le imposte, ma Uballit I vuole ribellarsi a Babilonia, usurparne le terre. Vi chiede appoggio».
Akhenaton andò alla finestra.
«Non ho tempo per queste cose. Non capisci che è proprio questo che voglio cambiare?», disse a Yah-Mes. «Questa è stata l’epoca della meschinità, ed è finita. Un giorno tutto questo dovrà finire! Facciamolo io e te. Basta odio. Basta guerre. Basta nazioni». Di nuovo guardò verso la montagna, la rupe Ra’s Abu Hasah. «Siamo tutti un unico popolo. L’impero di Dio», concluse a occhi chiusi.
Yah-Mes non fiatò.
«Non dite così». Passò in rassegna tutte le lettere di argilla. «L’Egitto è il mediatore di tutte le nazioni, per questo tutti i sovrani vi scrivono. Chiedono il vostro intervento. Non possono risolvere da soli i propri problemi. È questo il vostro potere. Così faceva vostro padre. Controllate le relazioni del mondo, tutte le decisioni passano per il vostro trono. Se smettete di intervenire, il potere dell’Egitto smetterà di esistere e subentrerà qualcun altro. Siete voi che dovete creare tutti gli accordi e gli squilibri».
Il giovane faraone strinse le labbra carnose e guardò la mappa del mondo.
Akenhaton si avvicinò all’enorme mappa e la osservò con i suoi occhi da rettile. Poi rivolse uno sguardo preoccupato al suo giovane amministratore.
«Se governare significasse questo, non avrei mai accettato di essere faraone. Però lo sono». Trascinò i piedi fino a fermarsi davanti al suo interlocutore. «Significa una cosa: sono qui per cambiare le cose. Per questo Dio mi ha fatto faraone d’Egitto».
Il giovane Yah-Mes ricontrollò la lettera dall’Assiria.
«Uballit I dice: “Per lungo tempo vostro padre e io siamo stati in buoni rapporti come sovrani. Ma a voi non sembra importare la diplomazia”».
Akhenaton abbassò lo sguardo e risentì nella mente la voce del padre Amen-Hotep III: “Sei orribile. Sei un eunuco. Ti aborrisco”.
A quel ricordo, chiuse gli occhi e pianse. Risentì le frustate sulla schiena e, sulla parete, vide il gigantesco ritratto del padre ormai morto. In quel momento, tra le nubi oscure tendenti al verde, aveva di nuovo sette anni e correva tra le rupi, al buio, inseguito dal fratello, il perfetto e ben dotato Tutmosis.
«Prendilo! Acchiappa lo storpio!», gridava flagellandolo sulle spalle con il NekHakha. I ganci gli si conficcarono nella nuca. «Muori, maledetto storpio! Umili tuo padre!».
Le sue guardie lo stavano osservando. Tutti vedevano il segno sul cranio e nascondevano un sorrisetto.
Il venticinquenne Yah-Mes disse ancora: «Anche Tushratta è indignato con voi».
«Tushratta?».
Yah-Mes gli avvicinò la tavoletta rossastra.
«È stato il principale alleato di vostro padre. Avete bisogno del re dei Mitanni. Senza di loro, Ittiti e Assiri vi faranno fuori. I Mitanni sono il vostro scudo».
«E perché è arrabbiato?»
«Avete disprezzato sua figlia. Guardate». Gli porse la missiva.
«Tadukhipa?». Il faraone scosse la testa. «Perché devo prendere in sposa la moglie di mio padre? La mia matrigna?»
«E c’è dell’altro. Anche Suppiluliuma ce l’ha con voi e con l’Egitto. Guardate». Gli porse un’altra tavoletta di colore verde che Akhenaton lesse.
«“Per quale motivo voi, fratello mio, rifiutate di darmi ciò che vostro padre mi dava sempre quando ero in vita, essendo io il re degli Ittiti? Datemelo subito, fratello mio! Mandatemi i vostri doni”». Il faraone scosse nuovamente il capo.
«Doni?». Inclinò la testa. «Quali doni vuole?»
«Vuole due statue d’oro, una in piedi e una seduta e “due statue d’argento di belle donne e un pezzo di lapislazzulo e altre cose, ciò che deciderete voi”», gli sorrise il suo amministratore.
«Ciò che deciderò io».
«“Ciò che voi, fratello mio, potete desiderare, scrivetemelo e io ve lo manderò attraverso Hatti, comprese donne di questa bella razza: donne di montagna».
Dalla porta di canne di giunchi di papiro si udì uno scricchiolio.
All’improvviso entrò gridando un gruppo di soldati: sette uomini coperti di pigmento blu egiziano con linee dorate sulla fronte. Davanti a tutti, un nero gigantesco si fermò proprio di fronte ad Akhenaton: il capo della medjay, la guardia segreta egizia. Si chiamava Mahu, guardia dell’impero.
Lentamente, il faraone si alzò in piedi.
«Mahu?»
«È in corso una rivolta a nord, nelle vostre terre di Yah, Retjenu e Kananna. Sono gli Apiru, i nomadi di Canaan. Stanno minacciando il governatore di Urusalima, Abdi-Heba. Lo hanno circondato e si stanno impadronendo del forte Shen, per rovesciarvi a Canaan. Ha l’appoggio dei sovrani del Nord».