38

A settecentosettantasette chilometri più a nord, in Siria, nella buia valle di paludi di Harran, re Nabopolassar osservò con le lacrime agli occhi la distruzione della Città Torre: ultima capitale dell’impero assiro e storico nemico di Babilonia. Scrutò il fuoco che si levava in alto all’interno dell’enorme fortezza di centomila abitanti.

Lo sfregiato condottiero sussurrò a suo figlio: «Ashur-Uballit II fu avveduto nello scegliere questa fortezza e creare l’ultima capitale di Assiria in questo luogo. Ora può rifugiarsi dietro a queste mura. Che codardo». Schiacciò nel pugno qualcosa di immaginario, con la forma di essere umano. «Anche se la incendiamo da fuori con le bombe di hamatu, le mura di cinta non si apriranno. I nostri uomini non riusciranno a scavalcare questi bastioni. Questo è il segreto di Harran. È per questo che in migliaia di anni non è mai stata conquistata: è ben protetta da queste mura. Non appena ci avvicineremo, faranno crollare le nostre rampe d’assalto: useranno i punteruoli che escono dai condotti vicino al bordo, lì in alto». Indicò delle piccole luci che tremolavano nell’oscurità. «Solo con le catapulte potremmo spedire gli uomini dall’altro lato, ma morirebbero massacrati dai cittadini. Ashur-Uballit non si aspetta che apriamo le mura della sua città dall’interno. Entreremo: non dall’alto, ma dal basso». Sorrise al figlio. «Invia i sommozzatori».

Il giovane Nabucodonosor ricambiò il sorriso.

«Sì, padre».

Si diresse verso le acque del fiume Balikh. Le fiamme di Harran si riflettevano sulle increspature del torrente. Il corso d’acqua entrava nel cuore della Città Torre passando per grandi fognature subacquee.

Il principe vigoroso urlò alle sue truppe: «Kulilu! Etequ Eberu Naru! Uomini pesce! Al fiume!».

Le grosse trombe di osso di elasmoterio posizionate ai lati del carro di Nabopolassar presero a suonare. Scagliarono al cielo i loro boati bestiali. I tre segnali sonori si ripeterono più avanti, in lontananza, in altri corni lontani: quelli degli uomini pesce.

Cento uomini si tuffarono nelle acque del fiume Balikh, intorbidite dal fango. Portavano degli otri gonfi allacciati davanti al petto con delle cinghie. Gli otri erano fatti con stomaci di toro e a ognuno di essi erano legate delle pietre che li fecero affondare nell’acqua, fino al fondale del fiume. Gli uomini-pesce respirarono per mezzo dei tubi che uscivano dai loro otri. Alle loro spalle, dei remi a molla fatti con tronchi enormi e tirati da legacci iniziarono a ruotare e li spinsero verso le fognature della Città Torre.

«E per quanto riguarda tutte queste nazioni…», sussurrò dolcemente Nabopolassar al figlio, socchiudendo gli occhi e indicando la linea dell’orizzonte con mano tremante. «Fenici, Siriani, Yakudus (Giudei), Egizi… Tutte queste nazioni inferiori adesso dovranno odiarsi l’un l’altra. Tu e io faremo in modo che ciò accada». Fece un ghigno.

«Come dite voi, padre».

«Che non torni mai più a esserci pace né alleanza tra di esse». Lo fissò. Nei suoi occhi si riflettevano le fiamme di Harran. «Solo se si odiano a vicenda potrai soggiogarle». Scrutò il figlio sotto alle luci delle fiamme distanti. «Tu governerai sull’instabilità, sulla guerra perpetua tra le nazioni. Ma prima devi creare questa guerra perché sia eterna, come le stelle».

Nabopolassar sollevò lo sguardo verso il cielo scuro. Chiuse gli occhi. «Devi fare in modo che tra tutte queste nazioni si diffondano ostilità e sospetto. Così, prima si annienteranno le une con le altre, e poi ti chiameranno perché tu sia il mediatore delle loro contese, perché tu stabilisca i rispettivi governi. Che ogni vicino sia per sempre nemico del suo vicino. Che ogni razza si decida a sterminare le altre razze. E allora tu verrai a ristabilire la pace e a imporre un equilibrio a questa grande instabilità. Comprendi, figliolo?»

«Comprendo, padre. Farò come dite».

Il grande re gli cinse le spalle.

«Tu mi hai visto in terra, umiliato da Assurbanipal re di Assiria, padre di Ashur-Uballit II. Tu hai visto come Assurbanipal ha umiliato tua madre. E davanti a lui tu hai pianto. Ti sei inginocchiato a lui e io non ho potuto impedirlo». Chiuse gli occhi. Si mise a piangere.

«Io ho imparato il segreto degli dèi; e ho imparato anche il segreto degli uomini. Oggi lo tramando a te: non lasciarti mai sconfiggere». Con gentilezza mise un dito sulle labbra del giovane e muscoloso Nabucodonosor. «Quanto sto per dirti ti cambierà per sempre. Non dovrai mai dimenticarlo, perché io non sarò vivo ancora a lungo per ricordarti di questo tesoro che è appartenuto ai tuoi antenati».

Nabucodonosor sgranò gli occhi.

«Di cosa si tratta, padre? Ditemelo».

Nabopolassar gli sorrise.

«L’uomo ha quattro compiti: la conquista, la difesa, l’espansione e l’esecuzione del potere. Non ne esistono altri».

«Quattro compiti…?», replicò Nabucodonosor.

«Un uomo può spodestare gli dèi. Tu prenderai il tuo posto tra di loro».

Nabucodonosor scosse la testa. «Non capisco, padre. Tra gli dèi? Morirò?»

«No, figlio mio». Nabopolassar sorrise. «Quando avrai conquistato tutto ciò che esiste qui sulla terra, tutto quello che io ancora non ho trasformato in dominio di Babilonia, allora rovescerai i principi del cielo, gli Anunnaki». Volse lo sguardo alle stelle. «Lì prenderai il trono di Nibiru e lo annetterai al nostro impero».

Nabucodonosor corrugò la fronte.

«Padre, di cosa parlate? Affrontare gli dèi?». Anche lui guardò il cielo.

«Non avere mai più paura. Non sei stato creato per essere sconfitto. Non sei nato per fermarti: sei stato creato per conquistare tutto. Ricorda Gilgamesh: lui vinse Ishtar. Trionfò su una dea. Perché tu non potresti fare lo stesso? Perché tu non potresti vincere tutte le divinità e diventare tu stesso un dio più potente per tutto l’universo?»

«Ma… padre… Gli dèi?».

Avevano entrambi lo sguardo rivolto al firmamento. Poi il potente conquistatore afferrò il figlio per i polsi. Li strinse con forza.

«Un uomo può rovesciare gli dèi. Il tuo trono sarà qui sulla terra, ma governerai le stelle. Sconfiggerai Anu, il dio supremo del cielo. Sconfiggerai Marduk e Inanna. E scoprirai che c’è qualcosa di più grande di loro che li governa. E dovrai sconfiggere anche questo; e continuerai così, sempre più in alto. E scoprirai ogni volta nuovi universi». Gli strinse una spalla. «Non sarai mai debole, né ti arresterai nell’espandere il tuo potere. Sarai sempre il più forte, sulla terra e nell’universo. E per te non ci saranno mai limiti. Conquisterai tutto ciò che esiste e che possa esistere. E ciò che non esiste, tu lo creerai. Costruirai nuovi universi e sarai il padrone di tutto».

Nabucodonosor gli sorrise, commosso.

«Vi voglio bene, padre. Avete ancora molto da insegnarmi perché io possa riuscire in tutto questo. Ho paura di deludervi». Deglutì.

Nabopolassar gli accarezzò il braccio. «Il cielo non è il limite, figlio mio. Non ci sono limiti. Tutto ciò che io ho conquistato, l’ho conquistato solo per te. Quando ho iniziato non avevo nulla. Promettimi che non ti fermerai mai e che conquisterai tutto. Me lo prometti?».

Il vigoroso giovane abbassò lo sguardo per terra. «Ve lo prometto, padre. Conquisterò tutto, per voi, e non mi fermerò mai». Lo fissò. «In ogni nemico che incontrerò vedrò Assurbanipal, e mi ricorderò di come vi ha umiliato davanti a me e davanti alla vostra sposa, mia madre. Raderò al suolo le città per espandere i vostri domini e ricostruirò tutto da capo, sempre con il vostro nome sulle mura. E con il mio seme feconderò tutte le femmine conquistate. Le ingraviderò per generare nuove razze con il seme di Dahhak, il vostro trisavolo; e porteranno il vostro nome sulla fronte, mio amato padre, il segno della dinastia bit-yakin».

Nabopolassar gli sorrise.

«Adesso entra». Indicò Harran. «Tra poco i sommozzatori ti apriranno le porte dall’interno. Fa’ schierare l’esercito alle sette porte. Cattura Ashur-Uballit II. Quando ce l’avrai davanti agli occhi, non ucciderlo subito. Smembralo vivo davanti alle sue spose e ai suoi figli. Stupra le sue spose davanti ai loro figli. Che gli eredi di tutti questi regni siano sempre frutto del tuo seme. Così ti obbediranno e ti adoreranno, perché tu sarai il loro padre».

«D’accordo, mio adorato padre».

Con una forza inaudita, lo sfregiato Nabopolassar sollevò la mano del figlio verso le stelle. Rivolto ai soldati gridò a pieni polmoni: «Sarrum Kissatu! Re del mondo! Sarrum Kissatu! Re dell’universo! A partire da questa notte il mio amato figlio è il re dell’universo. A lui io consegno il mio impero!».

I guerrieri urlarono rivolti al cielo: «Sarrum Kissatu! Re del mondo! Sarrum Kissatu! Re dell’universo!». Batterono sui tamburi.

Quando si aprirono le porte, gli enormi kuribu a forma di tori alati si disposero come dei colossi corazzati davanti alle sette entrate di Harran. Fecero schizzare il fango insieme alle fiamme che uscivano dagli occhi e dalle bocche. Dietro i carri da guerra babilonesi venivano migliaia di soldati.

Il sangue fu sparso; il fuoco lambì le mura, i tetti di paglia e le travi di legno. I soldati caddero davanti alla foga dell’esercito babilonese e dei loro demoni alati.

Dal suo carro di guerra, il temibile Nabopolassar gridò: «Oggi vi catturerò vivo per torturarvi, Ashur-Uballit II!». La sua voce si spense tra le urla dei soldati che si aprivano un varco a forza verso l’interno della Città Torre, i cui bastioni iniziavano a incendiarsi.

«Oggi farò di questa vostra ultima capitale il mio forte occidentale per invadere il resto del mondo. E a partire da questa notte io sarò l’imperatore di Assiria! Dov’è adesso il vostro faraone egizio, che aveva promesso di venire ad aiutarvi stanotte, a impedirmi di ottenere questa conquista? Io non lo vedo da nessuna parte».

Si guardò intorno, ridendo a crepapelle. «Il vostro amato faraone non verrà a salvarvi, perché io lo tengo occupato a sud, a combattere contro i nativi della costa Yakudu. Iniziate l’invasione su larga scala. Tagliate la testa a tutti gli uomini. Legate tutte le donne e infilatele nelle ceste, adesso sono nostre schiave».

L’enigma dell’ultima profezia
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