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Novecento chilometri a nord, ad Harran, in Siria, sotto un cielo rosso fuoco, dall’alto delle mura circolari della Città Torre, sull’alto ponte dei leoni in pietra, il giovane e muscoloso principe Nabucodonosor di Babilonia sorrideva convinto della propria conquista.

«Amato padre», disse a Nabopolassar, che si trovava alle sue spalle, «non dovevate fare tutto questo per me, ma ve ne sono riconoscente».

Ai suoi lati, con una serie di clangori metallici, si azionarono le due ingombranti catapulte, addossate al trasporto a forma di toro alato o kuribu. I due colossali e massicci bracci di ferro, spinti dalle molle, scattarono in avanti, rimbombando sul pavimento come bombe, dopo aver scagliato due smisurate palle di catrame e acido. Lungo la loro traiettoria seminavano spirali di scintille come comete, visibili perfino ai venti generali al comando sui loro grandi carri kuribu a sei ruote, a settanta chilometri da quello slargo. Dalle sfere di hamatu si alzò un rombo profondo, come il verso di una creatura mostruosa.

Dal veicolo di Nabopolassar si alzò potente nel cielo lo spettrale suono di un corno che riecheggiò più volte all’orizzonte. In lontananza, ogni battaglione di Nabopolassar rispondeva con il proprio.

Nabucodonosor si voltò verso il muscoloso padre Nabopolassar.

«Discorso eccellente, figlio mio», disse il re, alzandosi dal trono formato da sei corna dorate di toro che convergevano al centro. «Ricordati molto bene questo: solo il codardo fuggirà questa battaglia. Sbaraglieremo il faraone Necao non appena arriverà, dopo aver solo perso tempo a Yaduku contro le truppe di Giosia, perché già abbiamo il controllo di questa fortezza. Non potrà più fare niente qui. Ormai, come potrebbe?». Si voltò sorridente all’orizzonte. «Ancora non vedo tornare le sue maledette truppe, ma forse si stanno muovendo lentamente». Socchiuse gli occhi. «Li hanno trattenuti per bene, ritarderanno di sicuro. Se Necao ha sconfitto gli Yaduku, non importa. Tu e io ci guadagniamo questa fortezza che controlla Harran, il Nord dell’Asia. Ora sei tu l’unico signore di questa porta a sud, punto nevralgico su tutto l’Occidente. Sei tu il signore dell’Asia».

Il principe Nabucodonosor gli sorrise.

«Grazie, padre».

«Non ringraziare me, ringrazia piuttosto i nostri inviati a Yaduku», sorrise. «Senza di loro non avremmo ottenuto nulla».

Nella mente del giovane Nabucodonosor presero forma due commoventi immagini: il corpulento sacerdote Chelkia e suo figlio, lo scheletrico straccione Geremia.

«È vero, padre. Sono riconoscente anche a loro. Non avremmo ottenuto niente di tutto questo senza le nostre larve».

«Però non abbiamo ancora finito. Necao non ci sconfiggerà qui. Quindi, se dovesse arrivare stanotte, ci muoverà qualche rapido attacco lì e lì». Indicò lo schieramento di migliaia di soldati babilonesi, persi e medi. «Tuttavia arriva indebolito e il suo esercito sarà sicuramente sfinito per aver combattuto a Yakudu. Non si fermerà qui perché sa che in queste condizioni lo farei a pezzi. Ripiegherà quindi di nuovo a sud, di là». Indicò il mar Mediterraneo. «Troverà riparo dietro quelle montagne a Karkemish». Puntò verso ovest. «A Karkemish ha qualche alleato e lì fonderà una maledetta ultima capitale per attaccarmi».

«Karkemish, padre?»

«Ti chiedo ora di prendere il controllo di tutto, il potere di Babilonia e di questo forte di Harran, di tutto il Tigri e l’Eufrate. Assumerai tutte le funzioni imperiali e sarai il generale supremo del nostro esercito, il Rabbu Turtanum». Osservò le migliaia di soldati, nella piana di fango tinta di rosso.

«Va bene, padre».

«Ora tutti questi uomini sono tuoi». Lo guardò dritto negli occhi. «Da questo momento sei il comandante delle terre dei Sumeri, degli Accadi, degli Assiri e dei Babilonesi. Io non esisto già più come capo, ora sei tu l’unico che conta, amato figlio. Sei il re di Babilonia».

«Padre…». Sgranò gli occhi arrossati. «Avete tutto il mio amore. Non merito tutto questo».

«Ora dipenderà tutto da Karkemish, mi capisci?». Nabopolassar afferrò il figlio saldamente per le braccia. «Karkemish è adesso il confine del mondo». Si voltò lentamente verso ovest. «Annienta l’Egitto a Karkemish, prima che si fortifichi e, una volta lì, insegui Necao fino in Egitto. Invadi l’Egitto. Radilo al suolo. Fallo tuo! Dovrebbe essere nostro da sempre». Lo scosse per le spalle. «Ricordi ciò che ti ho detto a proposito dell’impero, dell’universo?»

«Sì, padre, lo ricordo», deglutì l’altro.

«Bene, perché il tuo inizio sarà l’Egitto: devi conquistarlo, promettimelo. Radilo al suolo fino alle fondamenta. Non ne resti pietra su pietra! Non rimanga memoria, né storia del suo passato! Fonda qui un mondo totalmente nuovo per te, sulla base di ciò che ti hanno lasciato tuo padre e il tuo antenato Dahhak. Me lo prometti? Promettilo, figlio adorato. Promettimelo!». Scoppiò a piangere contro il suo petto. «Lo farai per me?»

«Sì, padre», deglutì Nabucodonosor. «Lo farò. Te lo prometto!», e scoppiò a piangere a sua volta sulla canuta testa del padre. «Ce la farò. Non permetterò mai più che qualcuno vi umili. Non accadrà mai più! Mai, mai, mai più».

«Non permettere che mi vinca», chiuse gli occhi.

«Padre… padre!».

Arrivato il momento di mobilitare il temibile esercito di Babilonia, il nuovo re Nabucodonosor fece risuonare le trombe dell’avanzata senza indugio.

L’enigma dell’ultima profezia
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