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Giosia, re dei Giudei, si trovava settecentosettantasette chilometri più a sud. Era appostato lungo la costa Yakudu, nella tenebrosa valle di Megiddo, parola ebraica che significa “fine del mondo”. Sollevò lo sguardo sulle due gole nere di Aruna e Yokneam. Scrutò la fiumana di soldati falco di Necao. Gli venivano incontro scendendo per i due burroni; portavano migliaia di fiaccole, erano armati di lame di ferro e si urlavano l’un l’altro nella loro lingua, come civette.
Giosia chiuse gli occhi.
Le macchine da guerra egizie toccarono terra facendo tremare il suolo. Avanzarono per la valle facendo girare le enormi ruote. Le bocche si aprirono con dei fragori meccanici; sputarono fuoco dai tubi laterali e riversarono fiotti di liquido nero sulle truppe giudaiche.
«Heka…», sussurrò Giosia. Chiuse gli occhi. Heka era il fuoco egizio, la parola che significa “magia”.
I soldati giudei si misero a urlare; si dimenarono per terra mentre l’acido scioglieva loro le gambe. Dalla parte più alta della montagna, le pesanti catapulte egizie, simili a coccodrilli eretti, scagliarono in cielo delle palle chiodate: grandi ricci rotanti con aculei di ferro. Le grosse sfere caddero sulle fila di giudei e li trafissero al collo. Si sentì urlare. Le punte affilate delle sfere fecero una strage: corpi smembrati, volti dilaniati, ebrei in preda al panico. Molti rimasero morti in piedi, impalati. Altri rotolarono insieme alle palle di chiodi.
Giosia gridò ai suoi uomini: «Arcieri! Lanciare!».
Le frecce colpirono gli scudi con cui i soldati egizi si proteggevano la testa. Continuarono ad avanzare. Squarciarono i nemici con le spade. Ci fu un rigurgito di organi. Le viscere uscivano dai ventri, tra le dita colava il sangue, i volti erano tagliati a metà dalle spade che gli entravano dalla bocca.
Il giovane Eliakim, con i lunghi capelli neri inzuppati di sangue, corse tra i corpi mutilati e tra le budella sparse sulle pietre. Cercava di raggiungere suo padre. Contro il bagliore dorato del fuoco egizio vide le sagome degli uomini falco che infilzavano i soldati gibbor hayil con le loro lance enkajka.
Sentì cinque fischi nell’aria. L’aria gli passò come una lama sul lato destro della testa. Eliakim seguì il sibilo con lo sguardo, dietro di sé. La freccia trafisse la testa del suo amico Ylmas.
«Dio. No, no».
Corse verso suo padre quanto più velocemente poteva. «Padre, andiamocene da qui!», gli urlò. «Chelkia vi ha teso una trappola. Vi ha mandato qui per uccidervi. Deve aver complottato con Nabopolassar per diventare lui stesso re».
Cadde con la bocca nel fango, sul miscuglio di sangue. Lo ingoiò. Si rialzò. «Padre!».
Centoventisette chilometri più a sud, nel cuore di Gerusalemme, all’interno dell’elegante sala del concilio di Giudea, il silenzio era assoluto. Sotto al candeliere immobile, un paio di sandali pregiati e decorati con dei fiori si trascinarono sulle pietre. Appartenevano alla grassa sposa di re Giosia: Halmutal. Si fermò e sorrise gentilmente.
Una mano scarna le prese le dita grassocce. Una bocca avvizzita le baciò. L’anziano chiuse gli occhi.
«Mia regina». La guardò con devozione.
«Safan, segretario reale». Gli sorrise. L’anziano stava in ginocchio davanti a lei.
«Non sopravvivrà nessuno in questa battaglia a Megiddo», le disse. «Sarebbe impossibile. L’accordo è questo: l’intero esercito di Giudea sarà distrutto dall’Egitto. Ma voi potrete decidere chi occuperà il trono del vostro sposo. Questa diventerà una capitale di Babilonia. L’Egitto verrà distrutto».
La donna si voltò verso il trono di Giosia, chiamato megathronos. Fece un respiro profondo. Deglutì.
Disse a Safan: «Portatemi mio figlio Shallum. Oggi mio figlio diventerà il re di Giudea; non Eliakim, il suo fratellastro maggiore».
Tra le lacrime di commozione aspettò che portassero al suo cospetto il giovane figlio. Quando Shallum giunse da lei, gli ordinò: «Devi assicurarti che quel bastardo di Eliakim sia morto, altrimenti egli verrà qui con le sue truppe a reclamare il trono».
«Madre, è difficile accertarsi che non sopravviva allo scontro».
«Morirà in battaglia, credimi; e lo stesso vale per tuo padre. E se non sarà così, i miei uomini lo porteranno fin qui per giustiziarlo per tradimento ‘Am Ha’Ares. Lo condannerò a morte per lapidazione, come stabilisce la nuova legge». Sogghignò.
Il ministro Safan sorrise tra sé: quell’ordine era stato dettato sin da quando i soldati giudaici erano usciti dalle loro case a Gerusalemme per andare in guerra, tramite la scorta di Giosia.
Sul campo di battaglia il principe Eliakim, primogenito di Giudea, correva tra le pozze di sangue di fegato umano. Si sporcò di fango nel tentativo di raggiungere Giosia.
«Padre!».
Vide la freccia fendere l’aria sopra la sua testa. Trafisse suo padre al collo. Re Giosia si portò la mano alla trachea per cavarsi il dardo dalla gola. Si piegò sulle ginocchia. Poi cominciò a sputare sangue.
Eliakim balzò verso di lui.
«Padre!». Si mise ai suoi piedi per riceverlo tra le braccia. «No, no, no». Cercò di fermare il flusso di sangue con le mani. Osservò sotto al fuoco il cavallo argentato di suo padre. Si chiamava Tiqvah, speranza. Si abbatté sui corpi dilaniati dei soldati. L’animale stramazzò al suolo con il ventre aperto a causa del solfato.
Eliakim prese la testa del padre tra le mani. Giosia aveva ancora gli occhi aperti, stralunati, rivolti alle stelle.
«Padre! Cosa farò senza di voi su questa terra, mio amato padre?».
Un uomo ordinò: «Catturatelo e portatelo al castello. La regina lo sta aspettando per il processo per tradimento ‘Am Ha’Ares. Infilzatelo per il collo con il gancio da macellaio». Portava una corazza nera con la forma di un enorme scorpione babilonese.
La punta di metallo ricurva trapassò la pelle di Eliakim e gli squarciò la parte molle sotto la lingua. Si mise a strillare. Afferrò il gancio metallico con le mani. Lo trascinarono via.
«Muoviti, bastardo assassino! La tua matrigna ti attende. Perché hai tradito il tuo popolo? Adesso tuo fratello minore è il nuovo re di Giudea».