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Intanto, con le caviglie immerse nel fango dell’Eufrate, la giovane spia greca Talete di Mileto camminava di fianco alla gigantesca zampa anteriore del grande toro alato detto kuribu, fissata con un cardine di ferro ingrassato di bitume sull’altrettanto gigantesca ruota coperta di fango secco di quel trasporto alto dodici metri. Taleto era scortato dai soldati di Napobolassar insieme all’affascinante e sveglia scriba Radapu di Ramah, ammanettata.

La donna sospirò e Talete le chiese se fosse disposta a quanto stavano per fare.

«Non sarebbe la prima volta», sorrise lei in risposta.

Sentiva sulla pelle il calore del fuoco lontano, della città in fiamme. Karkemish stava vivendo il suo ultimo giorno di storia. Nel fiume scorrevano sangue e carni dilaniate, braccia e teste amputate, in decomposizione.

«Ipponatte e Hanno devono aver già cominciato», le sussurrò in greco Talete, osservando il movimento delle truppe sull’altra riva del fiume. «Cominciano già a dirigere le divisioni a sud. Guarda». Accennò con lo sguardo a ovest.

Radapu spalancò gli occhi e guardò giù, verso l’imponente ventre del kuribu. Sui suoi fianchi lignei scorrevano oli con acqua di colore nero, con scricchiolii e cigolii. Di sotto, tra le teste delle centinaia di soldati babilonesi, Radapu riconobbe gli sguardi lussuriosi di diciannove soldati. La guardavano dal basso in alto, fremendo, leccandosi le labbra e accarezzandosi il pene.

«È per il re dei re!», abbaiò la guardia che conduceva Radapu dalla corda. «Non azzardatevi a guardarla», ringhiò frustandoli in pieno viso.

I soldati, tra mille brontolii, imprecarono abbassando lo sguardo.

«Saiahu-amtu-ardatu… Donna schiava deliziosa…».

La bella Radapu sentiva le corde ruvide segarle i polsi.

«Avrò fatto bene a fidarmi di nuovo di te?». Si girò appena verso Talete. «Δεν ξέρω αν έμπεπε να σε εμπιστευτώ. Non so se avrei dovuto, visto che mi hai fatto legare».

«Fidati di me», disse il giovane, continuando a camminare. «Non ti accadrà nulla».

«Mi hai detto così anche l’ultima volta. Allora non ha funzionato molto bene questo trucco del tuo Odisseo».

Talete le sorrise.

«Quello era ieri. Oggi useremo un trucco diverso, sempre pensato da Odisseo che, in effetti, è il mio eroe. Il nuovo trucco si chiama “cavallo di Troia”».

Radapu si fermò di colpo e strinse gli occhi incorniciati dai riccioli.

«Cavallo?». Guardò giù. «Vuoi usare un cavallo?».

Talete, senza slegarla, sussurrò: «Mia splendida ragazza, il cavallo sei tu», sorrise. «Tu fai da esca, sei la mia chiave per aprire questa porta. Sei il regalo per Nabopolassar. Stanotte la nuova Troia a cadere sarà il re di Babilonia. Tu stessa stai per portare a compimento l’omicidio che tanto desideri. Quando arriverà il momento, ti slegherò».

Le guardie li spinsero dentro la zampa del gigantesco toro.

«Kabù nipqu! Naspartu alaku!». Li punzecchiarono con le lance per farli salire lungo le anguste scale di legno che scricchiolarono sotto il loro peso. Nella parte alta c’era odore di incenso e legno. Le scale a chiocciola davano accesso al trasporto.

Sopra era in attesa il secondo guardaspalle del principe del mondo: Bel Usat, figlio maggiore dell’uomo uccello Alpaya. Tra le mani inzaccherate teneva la testa sanguinolenta del principe Tarkullu.

L’enigma dell’ultima profezia
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