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«! Puhu putuhhu. Questo è per ciò che mi hai ordinato di rubare a Jerushalim», disse Tadua al corrotto governatore Lab’aya della capitale Shechem. Gettò sul tappeto quattro otri pieni di miele. «Miele egizio».

Località: Scechem

Provincia egizia Sumur/Samaria

Forte Sakmu

(Nome futuro: Nablus)

Anno 1350 a.C.

Tra le nere pareti di roccia, il grasso governatore egizio Lab’aya, vestito solo di ampie cinture di cuoio, gettò sul tappeto la pesante barra di oro.

«Questo è per tutto ciò che hai rubato per me a Jerushalim».

Tadua, con la sua barba caprina e il copricapo di cotone, prese posto sulla poltrona di piume. Il pirata di pelle scura, con la gamba sul panchetto, gli sorrise.

«Faccio solo il mio lavoro. Voi, da governatore, attaccate altri governatori. Non voglio i tuoi metalli», e scostò con un calcio l’oro, «voglio le terre che pretendono i miei uomini». Si avvicinò al grasso governatore di Samaria, presunto sottoposto del faraone Akhenaton. «Posso combattere il tuo nemico Abdi-Heba di Jerushalim. Posso togliergli il palazzo e darlo a te e voi potete dire al faraone che l’ho fatto io, per farmi perseguire. Però voglio le mie terre». Indicò fuori dalla finestra. «Tutto quello che vedi qui fuori sono terre dei miei antenati». Lo guardò negli occhi. «I faraoni ce le hanno tolte. Sono le terre dei miei nonni e dei nonni dei miei nonni». Indicò le montagne desertiche con le spade di corno ricurvo. «Dimmi chi vuoi che vada a sgozzare e io lo sgozzerò. Se però mi tradisci, è a te che taglierò la testa». Il robusto governatore si accarezzò il collo e sorrise a Tadua. Poi si alzò.

«Tadua, Tadua, Tadua», disse mentre applaudiva, «quand’è che ti ho tradito? Avrai le tue terre». Osservò con lui l’immensità di quei luoghi cingendogli le spalle con un braccio. «Non ci si è mai presentata una simile occasione. Con il nuovo faraone che oggi governa l’Egitto, ci impossesseremo di tutto». Gli strinse la spalla. «È malato di mente. La sua nuova religione è…». Socchiuse gli occhi. «Se fosse ancora vivo suo padre…». Scosse il capo sconsolato. «L’importante è che oggi possiamo farlo. Non ci capiterà mai più un tale banchetto. Oggi possiamo. Oggi lo faremo».

Il capo dei nomadi Apiru assentì.

«Ti posso consegnare Jerushalim, Sidone, Tiro, Gazru, Byblos, Gath, Gintimirkil: tutta la dorsale di Kanaana. Voi sarete il re, ma io sarò il capo degli eserciti. E voglio le mie terre per la mia gente».

«Così sarà, amato Tadua. Questa notte vedremo insieme il tramonto dell’Egitto, la caduta del re falco. Vedremo se il suo nuovo dio lo protegge come vaneggia lui», concluse con un sorrisetto.

«I miei uomini uccideranno oggi stesso Abdi-Heba di Urusalima, Yapahu di Gezer, Biridiya di Megiddo, Abimilku di Tiro e Rib-Hadda a Byblos. Tutti governatori del faraone. Voi sarete signore di tutto».

Lab’aya lo fissò.

«Non stare male per queste azioni». Gli mise una mano sulla spalla. «Il colpevole è solo il faraone. È lui che ha deciso di togliere i suoi eserciti da queste terre per diffondere la “pace”», sorrise. «Che uomo stupido, ti pare? Oggi stesso lo ucciderò».

L’enigma dell’ultima profezia
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