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Una decina di metri più avanti, nella sala del concilio del palazzo, il silenzio era assoluto. Al cospetto dei massimi ministri anziani del regno di Giudea, vale a dire del vecchio segretario del re Safan, dei suoi due figli Ahikam e Gemariah e dei giovani nipoti Gedolia e Micaiah, nonché alla presenza del vecchio Akbor, con l’esile figlio Elnathan, suocero del principe ereditario Eliakim, fatto prigioniero sul campo di battaglia; e davanti ai tre figli del sacerdote Chelkia, i corpulenti Azaryah e Hanan e lo scheletrico Geremia, vestito di stracci e con uno strano giogo di legno che gli stringeva il collo, e al cospetto del grande e terrificante uomo uccello Alpaya, ambasciatore segreto del re Nabopolassar di Babilonia, stava succedendo qualcosa.

Il grasso sacerdote Chelkia, rivestito di gemme, allargò le braccia e le protese avanti a sé. Mostrò a tutti gli sferici anelli di agata persiana che aveva alle dita, forgiati in ampi anelli di bronzo.

«Vita eterna al nostro comandante, il re Nabopolassar di Babilonia, signore dell’universo; El-Elyon vi protegga, signore unto, protegga Nabopolassar di Babilonia e suo figlio, l’erede Nabucodonosor II».

Alle sue spalle, il figlio Geremia, con i suoi stracci e il giogo di legno intorno al collo, cominciò a gridare come in trance: «Oggi Dio mi ha parlato! Mi ha chiesto di fare un giogo e delle cinghie e di metterli intorno al collo». Toccò il legno che lo stringeva. «E mi ha detto anche: “In questo preciso istante, io, il tuo Dio, consegno tutti questi Paesi al mio servo Nabucodonosor di Babilonia, comprese le bestie dei campi! E tutte le nazioni dovranno d’ora in poi servire Nabucodonosor di Babilonia, perché così ho comandato attraverso il mio profeta Geremia, figlio di Chelkia”». Cominciò a piangere. «“E se qualche nazione si rifiuta di sottomettersi a Nabucodonosor e non piega il collo sotto il giogo di Babilonia, io la castigherò e verrà rasa al suolo, con la spada, la fame, la malattia e la morte!”».

«Così parla un profeta…», sussurrò il vecchio segretario Safan.

Erano già passate diverse ore da quando Eliakim era stato catturato e condotto al monte Sion. Non appena il profeta Geremia ebbe finito di parlare, una gran confusione invase la sala del concilio. Le porte si spalancarono ed entrarono diverse guardie portando una persona, un ammasso di carne impregnata del proprio sangue che gettarono ai piedi di Chelkia. Era il principe Eliakim, figlio del re Giosia; gli avevano conficcato uncini metallici nelle braccia e nelle gambe, per appenderlo ancora vivo.

«Ecco il traditore, santità. Trattandosi di una spia dell’Egitto, la regina vuole che sia processato per tradimento di ‘Am Ha’Ares e che sia lapidato dal popolo. Date l’ordine».

Chelkia sorrise al soldato, che aveva corazza, scudo ed elmo di foggia babilonese: sembrava un enorme scorpione. Si girò verso il proprio seggio e si accarezzò gli anelli dorati.

«Portatemi la frusta, prima della lapidazione lo voglio flagellare. Così stabilisce la nuova legge del tempio che, per volontà di Dio, ho rinvenuto nelle sue fondamenta». Sorrise tra sé e sé. «Gli darò quaranta frustate e altrettante alla donna che ha profanato questo sacro luogo. Portatemi anche lei. Li voglio qui tutti e due, appesi a questa colonna. Li offrirò in sacrificio a El-Elyon, per l’inizio di questo nuovo impero», sorrise. «Portatemela viva e ricordate: qualsiasi cosa dirà contro di me è una bugia. È indemoniata».

L’enigma dell’ultima profezia
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