133

Al piano superiore, nella sala del governo, il potente generale babilonese Nebu-Zaradan si tolse il velo da servo.

«Kalú nasaku Musezibu. Ganna Kitkittu».

Cominciò a camminare sotto il candelabro a sette bracci, verso il giovane fratello minore di Joaquim, Mattantah, “dono di Dio”.

«Ora sarai tu il re di Yakudu».

Il giovane dai capelli rossi tremava. Nebo Sarsekim si avvicinò al generale Nebu-Zaradan:

«Mi informano che ha qualche problema mentale. È un la-mudu abiti».

«Bene», lo guardò sorridendogli dolcemente. «Mi serve solo che sappia aver paura».

Con entrambe le mani gli avvicinò alla testa una corona trasparente e cristallina, con punte metalliche al di sotto, chiamata kululu gulgulu. Poi, con forza, gli premette il cilindro di vetro sulla testa, conficcandogli i ferri nella carne. Il sangue cominciò a scorrere a fiotti e il delicato Mattantah scoppiò in lacrime.

Nebu-Zaradan gli sorrise: «Questo è il potere: orrore. Se vuoi il potere, ciò che ami brucerà. Desidererai di non essere mai nato. Incatenatelo al trono! Ora serve il re Nabucodonosor di Babilonia!». E con le unghie lunghe gli tolse il sangue dagli occhi e gli sorrise. Legate l’altro ragazzino, il figlio del re morto. È richiesto per il sacrificio».

I soldati anzu presero a calci il figlio di otto anni di Joaquim.

Sua madre, Nehushta, ora nuda, gridava.

«Geconia! Geconia! Non fare del male a mio figlio!».

«Strappategli tutti i vestiti! Portatemi i ferri!».

All’esterno, quarantamila soldati babilonesi si scagliarono con le lance contro le gigantesche porte delle mura, rinforzate dall’interno con traverse di ferro che ora rintronavano.

«Saha-tu! Harran-she-tu!», gridavano i soldati sciamando come insetti.

«Uru patu! Distruzione! Distruzione! Le donne! Arrestatele per stregoneria! Sono femmine lilitu, streghe! Birka Patu! Sunu Patu! Aprite le gambe!».

Dall’alto delle mura saltarono dentro la città grappoli di uomini con le reti, imbracati a lunghi cavi di corda che scorrevano verso il basso dalle pulegge ancorate alle torri. Dai sette angoli delle mura si calarono nella città di Davide.

«Catturate tutti gli uomini! Tendeteli con il massaku! Catturateli e caricateli sui carri KuruPpu! La carovana, la via di Anata!».

In basso, nelle strade piene dei fuochi delle torce, i soldati sciti, parlando nella loro lingua – mai sentita prima di allora in quella parte di terra – con le loro teste rosse, sorridevano alla vista delle donne.

«Oiorpata! Oiorpataa! Oiorpata! Artimpasa Gaetha!», esclamavano picchiandole, trascinandole via a due a due nelle grandi reti suskallu. Tra le maglie il sangue scorreva a fiotti. Le donne tenevano in braccio i figli piangendo.

«Gira le reti! Ba erutu! Aggroviglia il maledetto pesce! Portatele tutte ai carri Kuruppu!».

E tra grasse risate cominciarono a riempire i sacchi di corpi di esseri umani ancora vivi. I sacchi giravano su loro stessi.

«Ai carri! Dritti a Babilonia!».

I primi cinquanta carri si mossero, tirati dai cavalli lungo la via Anatoth-Arrabah. Tra le maglie, le madri tiravano fuori le mani.

«La mia bambina! La mia bambina!».

Una bambina era in mezzo alle fiamme.

«Mamma!». Si strinse addosso l’abito di stracci. Tutt’intorno il qirtu, la pece, prese fuoco.

L’enigma dell’ultima profezia
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