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«Erano psicopatici. Psicopatici veri».

A parlare fu il distinto ambasciatore Moses Gate a Max León nella camera sotterranea indicata come D-18 o XVIII dinastia.

«L’incontro che la Redattrice R ebbe dentro quel trasporto babilonese fu per lei l’anticamera dell’inferno, l’unica cosa che vide durante quel tragitto fu quello che c’era dietro al trono di Nabopolassar, tra i quattordici corni del trono».

«Il Documento J…».

«Esatto: il rotolo di rame. Il rotolo con le iscrizioni egizie di settecento anni prima, incise nel deserto dall’uomo che tu e milioni di altre persone chiamate Mosè».

«E lo ha recuperato?».

L’ambasciatore gli sorrise. «Non aver fretta, Max. Sei tu il detective. Sei stato addestrato per condurre indagini, indagini criminali. Per questo sei qui, in questo Infrathronos. È il tuo momento, è il momento di decifrare un crimine commesso nel passato. Il crimine maggiore di tutta la storia del mondo, le cui conseguenze ancora ci influenzano: terrorismo, odio, razzismo, gli “ordini divini” allo stermino che esistono tanto nella Bibbia come nel Corano. Furono davvero “ordini divini”? No. Furono opera di Nabucodonosor». Si girò verso la parete a mosaico. «Ha tutto a che vedere con l’assassinio dei quattro faraoni della XVIII dinastia: la loro distruzione dal registro e il perché vennero destinati all’oblio. Non dimenticare che furono loro a governare tutto questo, la regione di Canaan faceva parte dell’Egitto. Perché i loro nomi sono stati eliminati?».

Il soffitto cominciò a rintronare per via del lavoro dei trapani. Tra le profonde crepe nella roccia risuonò la voce del reverendo Abaddon Lotan.

«Idioti! Non avete scampo! Quella camera non ha uscite. Vi strapperò le braccia con questi trapani!».

«Chi era Mosè? È esistito davvero?», chiese Max León all’ambasciatore Moses Gate. John Apostole, nell’angolo, senza luce, continuava a portarsi all’orecchio il minuscolo microfono, muovendo appena le labbra.

«Aspettate solo un attimo. Stanno arrivando informazioni importanti. Passo».

L’ambasciatore accarezzò il mosaico sulla parete.

«La storia di Mosè risale a uno dei più antichi e potenti sovrani dell’Assiria, Sargon I, conosciuto anche come Sharrukin. Ora ti recito uno dei miei passaggi preferiti da uno degli autori che più amo: Isaac Asimov. Dal Vicino Oriente, 1968, pagina 41: “[Sargon I] nacque (dice la leggenda) da una donna di buona famiglia, ma da padre ignoto. Sua madre, per la vergogna di aver avuto un figlio illegittimo, lo partorì in segreto […] Costruì un piccolo cesto di giunchi che ricoprì di pece per renderlo impermeabile”. Ti suona familiare?».

Max scosse il capo.

«Porco diavolo… questo Sargon assiro… è Mosè?»

«La donna “mise il bambino nella cesta che lasciò in acqua. La cesta venne raccolta da un povero contadino […] Il racconto del bambino abbandonato salvato per un evento eccezionale e quasi miracoloso che, da grande, diventa un grande condottiero di uomini è molto comune nella storia leggendaria, ma questo di Sargon è il più antico che si conosca. Fu ripreso da molti. Tra i Greci, Edipo e Perseo vennero abbandonati allo stesso modo. Nella mitologia romana ci sono Romolo e Remo. Tra le leggende ebraiche, Mosè venne abbandonato in circostanze molto simili a quelle di Sargon. È quindi molto probabile che la fama della leggenda di Sargon abbia influito sui racconti posteriori, soprattutto in quello di Mosè”».

Max rimase a bocca aperta.

«No… Mosè è… Sargon? È una storia assira?».

Da dietro, John Apostole sussurrò.

«La cosa si sta facendo molto oscura». E sorrise nel buio, alzando lentamente la testa verso il soffitto. «Mi spiace ricordarvelo, ma tra qualche minuto sarà qui il presidente degli Stati Uniti. Dobbiamo sbrigarci».

Moses Gate si spostò nel fango verso la mappa dell’antico Egitto.

«Nel 1937, Sigmund Freud, padre della psicoanalisi, fece una registrazione talmente sconvolgente e con un tale impatto sulla religione che la gente non la conosce. Non è stata diffusa. Voi la ascolterete adesso». Si girò verso John Apostole. «Si intitola Mosè e l’origine della religione monoteista nel mondo».

«Sarebbe meglio recuperare il Documento J», li sollecitò John Apostole, ma l’ambasciatore gli scoccò un’occhiata durissima.

Con la sua piccola torcia proiettò sul mosaico della parete della grotta un’immagine video. Era un filmato in bianco e nero, con un audio che risentiva del tempo. Si vedeva il dottor Freud, imponente, seduto al tavolo, con una grande tenda alle sue spalle. A voce bassa, il padre della psicoanalisi cominciò a parlare verso la telecamera.

«Signori, Sargon diceva così nelle sue iscrizioni: “Il potente re di Accad sono io. Mia madre fu una sacerdotessa. Mio padre non lo conobbi. Nella mia città, Azuirani, sulle sponde del fiume Eufrate», alzò la mano che teneva la pipa, «mi concepì mia madre nel proprio ventre. Mi diede alla luce in segreto; mi mise in una cassa di giunchi che sigillò con pece nera, per poi lasciarmi nel fiume. La corrente mi portò fino ad Akki. Con la sua bontà di cuore, Akki mi raccolse dalle acque”».

L’emerito professore, fondatore della moderna scienza della mente, fece una pausa di quattro secondi. Aspirò delicatamente dalla sua pipa. Poi si schiarì la gola, soffiò fuori il fumo e riprese.

«Questa è la versione più antica a noi nota di questa nascita mitologica. Tra gli altri cui in seguito venne attribuita, vi furono Mosè, Ciro, Romolo, Edipo, Karna, Paride di Troia, Telefo, Perseo, Ercole, Gilgamesh, Anfione e Zetos. Le indagini del dottor Otto Rank ci hanno permesso di conoscere l’origine e la diffusione di tale mito. L’abbandono in una cesta è una chiara rappresentazione simbolica della nascita. La cesta è il ventre materno, ma la fonte ultima di questa favola è…».

Il video si interruppe all’improvviso quando Moses Gate spense la propria torcia.

«Nella lingua accadica, la lingua comune ad Assiri e Babilonesi, c’è un temine che significa a sua volta “scudo” e “salvatore”: musezibu».

Max strabuzzò gli occhi.

«Porco diavolo… Musezibu? Cioè Mosè?»

«È probabile che il titolo originario di Sargon fosse sarrukin musezibu, cioè “re salvatore”, dove sarrum sta per “re”. In accadico, la combinazione sa-musezibti significa “portatore di scudo” o “scudiero”. Per chiedere aiuto o consiglio si grida museizibu, una specie di SOS. Ci fu un famoso babilonese che, nel 689 a.C., si ribellò al figlio di Sargon Senaquerib. Il popolo lo chiamava Mushezib-Marduk, il salvatore Marduk, un vero rivoltoso. È probabile che gli Ebrei abbiano preso tale leggenda mantenendo perfino il nome di questa figura per il salvatore del loro popolo». Max abbassò la testa. Nell’Infrathronos non c’era niente, se non l’immagine sulla parete.

«In realtà volevo credere in qualcosa, per esempio al Documento J. Invece… è tutto falso? Non c’è nessun Documento J? Mosè non è mai esistito? È un mito inventato da un popolo di un “salvatore”? È tutto un maledetto imbroglio?».

I tre rimasero in silenzio e cominciarono a camminare nel fango, guardandosi l’un l’altro.

«Siamo perduti», decretò John Apostole direzionando verso l’alto la chiusura della fibbia del suo cinturone. «Tutti quanti si aspettano che portiamo fuori da queste quattro maledette mura qualcosa: una stupida risposta. Non c’è niente?». Si fermò. «È tutto vuoto? Non c’è mai stata una Fonte J?», chiese infine a Moses Gate. «Tutto ciò che c’è nella Bibbia è l’invenzione di un certo sacerdote Chelkia del VII secolo e della Redattrice R?».

Senza parlare, l’ambasciatore abbassò gli occhi a terra.

«Una risposta c’è. Un’uscita da questa grotta c’è. Non verso l’alto né verso il basso. Non dai lati, ma dentro». Si toccò delicatamente il petto.

«Dentro?».

Afferrò Max León per i polsi e lo scosse.

«Ascoltami! La ragazza italiana che è lì sopra», e indicò il soffitto dove rimbombavano i martelli, «ti conosce. Sta fingendo. Ha un tatuaggio sulla nuca: D21S11. Il mosaico che il Santo Padre consegnò in Messico ce l’ha lei. Sono solo pochi numeri antichi, ma fanno parte della ultrastruttura. Sono geni e scritture egizie. Fa’ che si compia il suo destino. Qui in questo Infrathronos alla fine si rivela. Qui c’è l’immagine della mappa. Deve essere lei la Fonte J».

«Geni?».

L’ambasciatore mise il dito sulla mappa, al centro del Nilo dove c’era scritto , AKHET-ATN.

«Qui c’è Amarna. Quando tutta Israele faceva parte dell’Egitto, questi quattro faraoni vennero assassinati e cancellati qui. Era questa la capitale e i suoi nemici la eliminarono dalla storia come con i faraoni, ma nel 1887 una donna ne ritrovò per caso i resti. La città era completamente sepolta, sotterrata volontariamente dallo stesso governo dell’antico Egitto».

«Perché sotterrare una città intera? Che cosa c’era?», chiese Max León mentre la roccia del tetto cominciava a sgretolarsi.

«Frantumate la roccia! C’è il presidente! Vuole quel maledetto rotolo!». Un grosso frammento roccioso con una cascata di polvere precipitò nel fango, sollevando uno schizzo che colpì John Apostole in faccia.

«Bloody hell!», imprecò, pulendosi con l’avambraccio.

Le pareti laterali cominciarono a cedere.

«È ora», bisbigliò John al microfono.

Moses Gate tirò Max per il polso.

«Accompagna Clara Vanthi al suo destino. È qui, ad Amarna. Proteggila. Quella donna è Gena Eden. I suoi geni sono quelli del faraone da cui tutto ha avuto inizio. È uno dei quattro che sono stati cancellati». Toccò la città di Amarna sulla mappa. «Vai alla Tomba 3, rupe Ra’s Abu Hasah. Nella Tomba 3 c’è la copia originale della Fonte J

«Un momento… allora… Mosè è esistito? E perché non mi hai detto prima questa cosa su Clara?».

L’ambasciatore sorrise.

«Sì, Mosè è esistito davvero. Mosè fu quel faraone».

L’enigma dell’ultima profezia
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