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Mille chilometri più a nord, lungo l’ultimo tratto di costa del mar Mediterraneo, nella parte settentrionale della Siria, marciavano duecentomila guerrieri di diverse razze e nazionalità: babilonesi, persiani, medi, sciti, massageti. Erano capitanati dai potenti signori della guerra orientali: Nabopolassar re di Babilonia e Ciassare re di Media, il futuro Iran. Li accompagnavano i rispettivi figli ed eredi: Nabucodonosor e Astiage, entrambi di ventiquattro anni.
I loro eserciti avanzavano strattonando le dure leve dei carri da guerra: titanici tori alati, fatti di legno e ricoperti di bronzo e ferro. Si chiamavano kuribu o lamassu. Avevano ali giganti e volti di esseri umani con la barba; i loro occhi infuocati producevano gas incandescenti che si spostavano verso il basso ed eruttavano dalla bocca.
I meccanismi di guida delle macchine rombarono e scricchiolarono. Le sei enormi ruote per ciascun lato si bloccarono nel fango e sollevarono una grossa onda di melma nel pantano. Dai lati del veicolo centrale proruppero due grandi raffiche di fumo.
Il giovane e muscoloso principe di Babilonia, a petto nudo e sporco di sangue, sorrise. Il suo nome era Nabu-kudurru-usur, o Nabucodonosor. Scrutò all’orizzonte, verso la grande fortezza di Harran: un gigantesco cilindro di terracotta che svettava nel cielo come una torre, con migliaia di finestre illuminate. La Città Torre. Ai lati dei torrioni c’erano centinaia di costruzioni in terracotta, chiuse in alto con dei coni convessi simili a cappelli.
Mise i palmi sporchi di sangue sui passamani del suo calesse, proprio sulla corona del kuribu.
«È qui che si nasconde quel codardo dell’imperatore di Assiria?». Ridacchiò rivolto a suo fratello minore, Nebu-suma-Lisir, che gli stava a fianco. «Caricate le catapulte. Preparate l’hamatu. Tirate fuori Ashur-Uballit II da questa maledetta tana!».
Suo padre stava dietro di lui. Portava un elmo a forma di conchiglia e aveva un ghigno sulle labbra.
Nabopolassar sembrava compiaciuto.
Alle sue spalle tuonarono gli ingranaggi delle catapulte a molla, nascoste all’interno delle strutture dei giganteschi uomini pesce chiamati apkallu, i sette titani: Uanna, Uannedugga, Enmedugga, Enmegalamma, Enmebulugga, An-Enlilda e Utuabzu. Con fragori metallici che riecheggiarono tra le montagne come tuoni, gli apkallu torsero le catapulte laterali verso l’alto. Gli artiglieri del rango waspu-nappilu sganciarono i cardini ricurvi e sferraglianti.
Scagliarono per aria le grandi bombe di hamatu, nitrato di potassio, producendo degli schianti fragorosi. I proiettili formarono delle scie di fumo nel cielo nero mentre il fuoco veniva scagliato sulla città fortezza.
Nabucodonosor osservava tutto dal suo calesse kuribu. Guardò il cielo e vide le scie solcare lentamente il firmamento, sotto le stelle; lasciarono sette tracce di colore roseo, come degli archi; uno per ogni pianeta, verso il centro della città.
Si commosse. «Che la vostra grandezza avanzi, padre». Chiuse gli occhi e le lacrime gli scesero sulle guance. «Che la vostra memoria si faccia sempre più grande. Che voi possiate ricevere abbondanti tributi dai re di tutte queste nazioni sottomesse e da tutte le loro popolazioni, da ovest a est per il sole che ascende».
Si voltò lentamente verso suo padre, il grande Nabopolassar, che stava seduto e fumava un qataru al sapore di incenso. «Che voi possiate governare su tutte queste razze indistinte». Strinse gli occhi per seguire il momento dell’impatto delle potenti armi.
Dal cielo temporalesco le bombe di hamatu calarono su Harran ed esplosero, bruciando i suoi abitanti.
Le detonazioni riecheggiarono per tutta la valle di fango, tra i monti dell’Anti-Tauro. Le case di terracotta a cono furono distrutte. Dal cielo una cenere leggera cadde sulle teste dei due principi: Nabucodonosor e Astiage. Si sorrisero dai rispettivi carri da guerra.
«C’è odore di carne bruciata», osservò il giovane Nabucodonosor rivolto a suo padre.
Il grande Nabopolassar si alzò dal suo seggio. Espirò il fumo aromatico del suo gustoso qataru. Osservò il fuoco. Le fiamme si levarono dalla sommità di Harran. Si cominciarono a sentire le urla: strilli nella lontana torre cittadina, pianti.
Nabopolassar urlò a gran voce in direzione dell’incendio: «Ashur-Uballit II, imperatore di Assiria, vi ho circondato! Codardo! Non voglio che vi arrendiate. Non voglio che vi sottomettiate a me, né a mio figlio. Non voglio che vi inginocchiate davanti a me, né che mi supplichiate. Voglio battervi. Voglio farvi a pezzi! Voglio scuoiarvi con le mie stesse mani e spargere il vostro sangue, e sporcarmici quando è ancora caldo. Non farò accordi con voi né con il vostro popolo. Sto venendo a prendervi, a distruggervi, a devastare tutto ciò che non mi appartiene. Vi farò bruciare. Vi staccherò la testa con le mie stesse mani e berrò il vostro cervello direttamente dal vostro cranio aperto, davanti agli occhi della vostra famiglia. E la vostra famiglia soffrirà sulla propria pelle le umiliazioni che vostro padre Assurbanipal fece vivere a me, davanti alla mia sposa e a mio figlio, che è qui per assistere alla vendetta!».
Sedicimila uomini si mossero dalla palude in direzione della città, per prenderla dai fianchi. Al centro delle enormi roccaforti, anche i kuribu si mossero; con larghe pedane a cento ruote e con tubi per drenare la melma verso i fianchi, trasportavano rampe e scale retrattili.
I soldati sollevarono le rampe producendo degli schianti fragorosi. Dispiegarono le pesanti travi di ferro e le impalcature reticolate pieghevoli. Torcendosi verso l’esterno, i cardini stridettero. Le centinaia di uomini dietro agli ingranaggi si arrampicarono in fretta sulle rampe, protetti da corazze di testuggine.
Dall’alto urlarono: «Sirrusu! Lawu rubutu! She-Tu Sad-Kabu! Nibiru! Nibiru! Nibiru!».
Lungo i margini, centinaia di lampade a olio si accesero a una a una. Avevano la forma di volti umani scarnificati. Per mezzo di alcune pompe a vite poste nella parte superiore delle scale, il catrame bollente fluì verso l’alto all’interno di tubi di bronzo forati. Il liquido infuocato gocciolò dalle bocche in cima.
Dalla corona del suo kuribu, la voce amplificata dal corno di elasmoterio sorretto dai suoi eunuchi, Nabopolassar urlò: «Dov’è adesso il tuo faraone Necao d’Egitto? Non è qui a difenderti con le sue dannate truppe?».
Settecento settanta chilometri più a sud, Necao avanzava con il suo esercito lungo la costa, diretto a settentrione. Il calvo faraone d’Egitto era avvolto nella sua coperta di pelle di iena gigante (Pachycrocuta Robusta); le navi lo accompagnavano in parallelo nel mare, sotto le stelle. Era preoccupato. Da settimane avevano intrapreso l’avanzata lungo il litorale del mar Mediterraneo; grazie all’appoggio del principe Eliakim si erano coordinati con i loro alleati giudei.
Rivolse lo sguardo su suo figlio Psammetico, esile e con la testa aguzza rasata. Con voce stridula gli sussurrò: «Henn em fenkhu khna. Hanno di Fenicia farà sbarcare le sue divisioni tanitash a Kinalua». Con le dita fragili sfregò la mappa sul tavolo. «Da lì, le condurrà via terra verso il fiume Balikh per entrare a Harran. Nabopolassar entrerà a Harran attraverso il fiume, che scorre sotto la città tramite le fognature. È importante tagliare per il torrente. Hanno deve guadare il fiume. Tu distribuirai le nostre forze terrestri attorno a quelle di Nabopolassar e suo figlio». Con la lunga unghia ricurva tracciò un ampio cerchio intorno alla Città Torre. «I nostri arcieri stringeranno le sue divisioni dall’esterno verso l’interno, come un anello, fino ad assediarli contro le mura di cinta. Dall’alto, Ashur-Uballit II gli rovescerà l’acido addosso».
Un soldato a cavallo gli si affiancò e strepitò: «Neb Taui! ! C’è un problema!».
Il faraone aggrottò le sopracciglia. Il suo carro rallentò e lui si affacciò dallo spiraglio.
«Un problema?».
Senza smettere di cavalcare, l’uomo spiegò: «Il re di Yahu. Re Giosia di Yahu! Dice che non avete il permesso di muovervi lungo la sua costa, sire. Ha intenzione di fronteggiarvi con i suoi uomini!».
Il faraone si rivolse al figlio Psammetico: «Tu lo sapevi? Non hai negoziato con Eliakim?».