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Nel buio a Tarkullu, la bionda guardia babilonese, brillarono gli occhi. Sorrise a denti stretti alla scriba Radapu.
«Sono io che ho ammazzato tuo fratello. E ora toglierò dal suo nascondiglio quel maledetto rotolo». Da sotto il candelabro a sette bracci si girò verso il gigantesco trono d’oro su cui era assiso il nuovo re di Giudea, il lentigginoso giovane Shallum.
«Togliete di mezzo questo ragazzino!», gridò alle altre guardie e, con le sue stesse mani, lo scansò di lato. Dietro di lui, il sacerdote Chelkia sorrise e si affrettò sui suoi sandali dorati.
«Sollevate il trono! Tirate fuori quel maledetto rotolo!».
«Non fateglielo prendere! Non deve portarsi via il rotolo con la storia del nostro popolo, sono loro che hanno alterato tutto il passato! Ci vogliono privare della nostra storia! Questo rotolo è l’unico nostro legame con il passato!».
«Un momento!», gridò a quel punto un messaggero alle loro spalle. «Sono appena arrivate le vedette: l’esercito dell’Egitto avanza! Sono ventimila uomini, il faraone Necao con il figlio Psammetico».
Hilkiyahu si voltò stupito verso i soldati.
«Cosa hai detto?».
Il messaggero, sotto un mantello intriso del suo stesso sangue, si trascinò sul pavimento di piastrelle.
«Li ho visti io! Eccoli», e indicò la finestra.
Il grasso Chelkia vi si avvicinò mentre il messaggero raggiunse Radapu e le sussurrò in greco: «O πατέρας μου έφυγε από τή ζωή. Nel mio paese c’è un eroe antichissimo».
Si voltò a guardarla per mostrarle gli occhi del colore delle olive. «Tantissimi anni fa, quest’uomo tornò dalla guerra in un regno molto lontano. Trovò il castello in cui era stato re ormai invaso dai suoi nemici che insidiavano la sua sposa. L’uomo sapeva che, se fosse entrato dalla porta principale, lo avrebbero ucciso, allora decise di cambiare volto e lo fece per lui la dea civetta, Atena. Il suo nome era Odisseo».
La bella Radapu gli sorrise.
«Sei Talete. Sei Talete di Mileto? Sei tornato per me?».
Il giovane si tolse il mantello sudicio sotto il quale era completamente nudo. Impugnò le due spade kopis.
«Oggi il mondo sarà liberato, maledetti babilonesi! Oggi da qui si scatena la guerra dell’universo!».
Alle sue spalle si alzarono le grida. La grassa regina madre Halmutal – madre di Shallum e matrigna di Eliakim – venne sbattuta al muro contro le lance. Cominciò a strillare e a perdere sangue.
«Che sta succedendo? Questo è un tradimento ‘Am Ha’Ares!».
Le porte della sala cedettero alle fiamme. Come sciacalli gli altissimi nubiani dalla pelle scura si riversarono all’interno, dentro le loro corazze dorate a protezione dei muscoli, vestendo maschere di falchi: erano gli Haru-Sej egizi, gli uomini falco, la squadra di sfondamento che precedeva le truppe inviate da Necao in persona.
Con le lunghe lance dorate dalla punta di ossidiana, cominciarono a sgozzare i soldati anzu babilonesi.
«Khe-BI! Enkajka!», gridarono indicando la finestra verso il sacerdote Hilkiyahu. «KhaRa-Her Alpaya! Ankh-A-Necao!».
Il sacerdote Chelkia, tremante, si voltò vero la finestra. I pali cedettero. Da fuori entrarono venti soldati cobra egizi, spalleggiati da greci e fenici. Chelkia riusciva a vedere in fondo le risplendenti palle di fuoco. Si udì un tuono e tutto il pavimento tremò.
«Che sta succedendo?»
«È il giorno della libertà e della vendetta!», gridò nella propria lingua la spia Talete di Mileto, che poi cominciò a colpire con la sua spada kopis gli anelli di ferro della colonna. Con un colpo riuscì a liberare la scriba Radapu che si accasciò al suolo.
L’uomo uccello Alpaya, nel suo muscoloso abito di cristalli, si voltò vigorosamente verso il giovane re di Giudea, Shallum. Avanzò verso di lui, guardandolo con i suoi grandi occhi asciutti da colomba morta.
«Toglietelo da lì! Distruggete quello che c’è qui dentro! Dategli fuoco, che non si conosca il passato! Il re del mondo è Nabucodonosor!».
Dabbasso, nella Cisterna ciclopea, tirati dalla portentosa macchina da traino con la sua grossa ruota di ferro, gli anziani sacerdoti ribelli – i farisei – non riuscirono più a resistere alla tensione delle corde sulle gambe nude.
«Liberateli, per pietà!», gridò ai propri compagni uno dei soldati anzu babilonesi.
Scivolò sulla pietra umida, sull’ampia fossa della cisterna. Là sotto, nella pozza di pece bollente e fumante, giacevano i cadaveri semiaffondati dei diciotto scribi morti. Vi cadde anche uno degli anziani.
Restò appeso, strangolato dall’anello di ferro intorno al collo agganciato alla catena. Cercò di gridare:
«Parus! Kesil Parus!».
L’anello cominciò a segargli il collo. Sentiva il calore sotto i piedi.
Rimase lì appeso, senza più fiato. Da sopra, dai sette grandi paioli, cominciò a cadergli addosso il fiotto bollente di pece del mar Morto. Prese a scorrergli lungo il corpo bruciandogli il petto. Con il suo peso cominciò a tirarsi dietro i ventinove sacerdoti farisei che cercarono di bloccarsi con le piante dei piedi nude sulla sdrucciolevole pietra umida.
«Scioglieteci, bastardi! Signore, aiutaci!».
Il liquido vischioso con il suo puzzo di uova marce risalì lungo i quattordici metri delle pareti della cisterna. L’aria cominciò a surriscaldarsi.
«Salu! Galatu! Maledetto!», gridò dal bordo il fariseo Kesil Parus. Si mantenne sui muscoli potenti, chiuse gli occhi. «Se devo morire, che almeno serva a qualcosa!».
Dal centro della cisterna, attaccato alla catena, il sacerdote sospeso rimase in silenzio, al buio, tirato giù dal proprio peso.
«Calate la catena! Girate la ruota!».
Il capo Pallisut sorrise ai soldati.
«L’uomo uccello Alpaya ordina di versare la polvere di yookh per solidificare il qirtu. Vuole che il fondo diventi di pietra, in modo che non si possa più aprire. I cadaveri devono diventare parte della roccia, della montagna».
Il barbuto Kesil Parus guardò in su, verso il meccanismo che rovesciava i paioli. Chiuse gli occhi e cominciò a piangere.
«Che cosa posso fare ora, Signore Dio? Che cosa desideri che faccia adesso?».
Alla sua destra, l’altrettanto anziano Simonide di Amorgos, con le sue gambe muscolose, insieme al giovane persiano Tistar di Anshan, gli si avvicinò con cautela, in punta di piedi, lungo il friabile bordo di quell’enorme pozzo claustrofobico, con in mano le sue pasticche arancione brillante.
«Voi venite con me», disse, cercando di togliergli l’anello dal collo con la sua lancia.
Il sacerdote era incatenato a tutti gli altri farisei.
«Che stai facendo?», gli chiese una delle guardie babilonesi. «Arrestatelo!», e gli lanciò la daga. Simonide si girò verso il basso, su quella fragile cornice sopra l’abisso. Trascinò la guardia sull’asfalto liquido, poi, gridando, si rivolse al suo aiutante persiano: «Conosci un modo per togliere un anello a una persona senza spezzargli il collo?»
«Ma di che parli?», gridò a sua volta Tistar, afferrandolo sull’orlo dell’abisso. «Che stai facendo, imbecille?».
Con gran forza, Simonide strusciò le pastiglie arancioni contro il muro ruvido. A quel contatto, le due piccole pietre focaie bianche e allungate fecero scintille.
«Voglio il mio maledetto oro!», gridò ai babilonesi mentre ricominciava a strusciare le pasticche contro il muro. Si sprigionò un luccichio. Tutti guardarono, nel silenzio immobile, la piccola fiamma cambiare colore, nel buio, espandendosi intorno alla pasticca. Simonide sorrise. Il materiale prese fuoco nella sua mano.
«Talete, fratellino», disse tra sé e sé. «Adesso dipende tutto da te. Io sono stanco di me stesso. Ti aspetto nell’Ade».
Lanciò con tutte le sue forze la pasticca infuocata nello spazio aperto. La vide roteare per aria. Tutti la videro roteare per aria, produrre luce e scintille colorate. Gli anziani sorrisero stupiti alla vista di quel prodigio.
«È Dio? Dio è venuto a salvarci?».
Anche i soldati sorrisero, compreso il capo Pallisut.
«Deve essere uno degli spettri del deserto. Forse è… Lilitu? O forse sei tu, Ereshkigal, la grande signora del mondo profondo…».
La pasticca gli atterrò direttamente sulla testa, nell’occhio. Esplose.
Trenta metri più in alto, nella sala del trono, l’esplosione arrivò anche a Talete di Mileto e alla mora Radapu che, scossa e nuda ai piedi della colonna, si immobilizzò.
«Cos’è stato?», esclamò sentendo tremare il pavimento.
Talete abbassò lo sguardo a terra.
«È il mio amico Simonide. È sempre lo stesso», e continuò a dare di spada contro le catene di ferro per liberare il principe Eliakim.
Da dietro, tra i soldati egizi, gli si avvicinò gridando il biondo Tarkullu, con il viso insanguinato e i due magli di punte di ferro.
«!».
La bella Radapu gridò a Talete: «Attento! È il babilonese che ha ammazzato mio fratello! Ti ucciderà! È uno dei figli di Nabopolassar, fratello di Nabucodonosor!».