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Giù a valle, nella lucente città di alabastro in cui la luce del sole si diffondeva sui cristalli, il giovane faraone Akhenaton trascinava le gambe distorte dalla malaria.
Si appoggiò al bastone nero smaltato di legno di rovo e si avviò lento sul ponte di travi colorate sul grande viale Khat Matennu-la, il viale delle Nazioni.
Illuminato dal sole, guardò alla sua sinistra, dov’era il suo compagno, il grasso ed enorme re ittita dalla pelle rossa che pesava centotrenta chili. Con i denti di bronzo all’infuori, l’uomo sorrideva agli egizi e li salutava.
«Io sono Shuppilu-Liumash, re degli Ittiti». Si batteva il petto.
Con espressione gioiosa si girò poi verso l’esile faraone cingendogli le spalle con un braccio in un gesto delicato.
«Sei un amico e un fratello».
Il giovane faraone si fermò in mezzo al ponte, sul parapetto centrale detto “balcone dei regali” che era posto al centro del viale. Il popolo lo invocava dal basso.
«Abbiamo fame! Vogliamo commercio, cibo! Le nostre famiglie stanno morendo!».
Akhenaton abbassò lo sguardo verso le migliaia di cittadini e sorrise. Alcuni gridavano.
«Akhen-Aton! Akhen-Aton! Akhen-Aton!».
Questi sentì l’aria fresca sul viso e, con delicatezza, appoggiò le mani magre dalle dita contorte sul corrimano di legno del parapetto. Sussurrò al coppiere reale, l’alto e magro Panehesy: «Avvicinami le casse».
Cinque soldati dipinti di verde e azzurro gli presentarono le sette casse su ruote. Il faraone ne tirò fuori i cristalli, i gioielli colorati, gli scarabei d’oro, simbolo di rinascita, i soli di rubino, le gocce dei raggi di Aton. Poi gridò alla sua gente: «Miei amati! Questo è il tesoro di mio padre. A me non servono questi gioielli. Non ho bisogno di sfere d’oro», e le lanciò con gran forza nel vuoto, verso i cittadini. «Prendeteli tutti, miei amati! A me non serve niente di tutto questo. Dove vado io, non esistono ricchezza né povertà. Siamo tutti uno solo, siamo tutti scintille del sole!».
Accanto a lui, il grasso Suppiluliuma spalancò gli occhi.
«Tutto questo è… straordinario…».
Il giovane Akhenaton gridava al popolo: «Io non ho fatto niente per diventare faraone d’Egitto! Chiunque tra voi ha il mio stesso diritto. Ma perché voi siete poveri io e sono qui in questo palazzo? Forse perché lo merito? Io sono solo uno di voi!». Alzò lo sguardo. «Tutto questo finirà presto! Non ci saranno più né poveri né ricchi. Non ci saranno più mitanni, né assiri, né egizi, ma saremo tutti uno stesso popolo, come Aton, mio padre e io che siamo una cosa sola».
E rovesciò ancora più gioielli sulla folla.
Dietro di lui, Suppiluliuma arretrò, sorridendo, e, con cautela, gli mise dietro il braccio una crisalide trasparente che spezzò con le dita. Ne uscì un liquido arancione e vischioso da cui emerse un millepiedi, una Scolopendra subspinipes.
«Non è mai stato così facile annientare l’Egitto», sorrise ad Akhenaton. «Muori, uomo debole. Oggi comincia l’impero di Hatti».
L’insetto si infilò nella veste del faraone e Akhenaton ne sentì la puntura e il morso. Nel lampo che gli si accese davanti agli occhi risentì la voce di suo padre.
«Ti detesto, deforme! Voglio che tuo fratello ti distrugga!».
Tra le scure nubi verdastre, correva tra le rupi, nel buio, a sette anni, dritto verso la rupe Ra’s Abu Hasah, nella montagna nord di Amarna.
Lo inseguiva suo fratello, il bellissimo Totmes, ridendo a squarciagola.
«Acchiappalo, acchiappa il deforme. Sei la vergogna di mio padre!», e gli agganciò il frustino dietro la testa.
Akhenaton osservò la gente al di sotto del ponte delle Nazioni. Ora lo amavano tutti. Tutti lo osservavano a loro volta in silenzio, incupiti. Il faraone cadde in ginocchio. In silenzio, dalla bocca cominciò a uscire un liquido azzurro che risplendeva sotto i raggi del sole. Tornò a essere il bambino di sette anni che salì sulla rupe Ra’s Abu Hasah. Nel buio, scoprì uno splendore sulla superficie del roveto, una fosforescenza. Sopra il cespuglio apparve una palla di luce.
Una mano lo tirò verso il roveto.
«Yah-Mes?».