Capitolo sessantasei
Rose
Oggi
Tiro giù la scala e salgo titubante. Arrivata in cima, clicco sull’interruttore a pavimento e la luce si accende di colpo. Mi stupisce che funzioni ancora, ma papà era bravissimo nei lavoretti di casa e, conoscendolo, avrà scelto una lampadina con una durata di almeno quindici anni o giù di lì… sempre che esista.
Prendo fiato e mi destreggio per salire sull’attico, impresa più facile a dirsi che a farsi. L’ultima volta che sono venuta qui per aiutare papà a organizzare gli spazi, ero una ragazza forte e sana, non un mucchietto di ossa denutrito.
Mi siedo un attimo e osservo le mie gambe che penzolano fuori dalla botola. L’immagine riflette più o meno come mi sento dentro: il corpo nel mondo reale e la mente annebbiata da pensieri oscuri e alternative intollerabili che mi spaventa esplorare.
La mamma aveva fatto un bel repulisti e tutto ciò che aveva voluto conservare senza ingombrare lo spazio abitabile era finito qui. Dopo il funerale di Billy, quando cominciammo a ricomporre i pezzi delle nostre vite, papà infilò tutta la roba – documenti, appunti, contatti e recapiti – in una grossa scatola di cartone e l’abbandonò quassù.
La mamma aveva annotato con estremo puntiglio ogni informazione che secondo lei avrebbe potuto tornarci utile. Da piccola, aveva lavorato per anni come segretaria volontaria per il comitato del paese, perciò ci sapeva fare con il lavoro d’ufficio.
Non abbiamo mai toccato niente; perché avremmo dovuto? La scatola delle prove, come l’avevamo chiamata, è rimasta intatta da quando papà l’ha confinata in soffitta. L’assassino era stato arrestato, processato e condannato all’ergastolo. Dopo il nostro crollo, erano stati l’ispettore North e la sua squadra ad abbinare i pezzi sparsi fino a ricomporre l’orribile quadro.
Non volevamo rivivere l’accaduto, ma neppure liberarcene del tutto. La scatola dimostrava che avevamo fatto del nostro meglio per Billy, setacciato ogni angolo e analizzato ogni minima informazione che ci era capitata tra le mani.
E ora… ora che tutte le mie certezze minacciano di sgretolarsi, sono proprio felice e grata di averla conservata.
Mi trascino con il sedere sulle assi polverose di truciolato sistemate da papà e tiro su le gambe. Ci sono un sacco di scatoloni quassù, più di quanti ricordassi. È buffo che la mamma sentisse il bisogno di conservare tutta questa roba… e che una volta collocata in soffitta non l’abbia mai più toccata.
Mi sposto lentamente da una scatola all’altra, sbirciando qua e là. Decine e decine di fotografie di scuola, sia mie sia di Billy. E biglietti d’auguri, scritti con amore, che la mamma non se la sentiva di buttare via. Mi si serra la gola aprendone uno con la scritta BUON COMPLEANNO, MAMMA, in cui riconosco la grafia infantile di Billy.
Percorro con l’indice le parole e le righe sottili che lui tracciava con matita e righello per scrivere dritto.
«Oh, Billy», sospiro piano. «Mi manchi tantissimo».
Mio fratello avrebbe compiuto ventiquattro anni quest’anno. Era alto per la sua età; la mamma diceva sempre che avrebbe superato il metro e ottanta. Sarebbe stato strano da vedere… il mio fratellino che mi superava di una spanna. Non saprò mai cosa si prova.
Chissà se ce l’avrebbe fatta a diventare un pilota come sognava. Forse no. Non credo che sarebbe stato capace di affrontare degli studi tanto impegnativi, ma che importa? Avrebbe avuto successo in qualunque altra cosa avesse scelto di fare ed è questo che conta.
Ripongo con cura i biglietti di auguri nella scatola e la richiudo, per proteggerla dalla polvere e dai segni del tempo, che ormai non possono più infierire su Billy.
Sono in soffitta solo da cinque minuti e sento già un grosso peso dentro, come se mi avessero risucchiato tutte le energie. Non voglio spulciare tra i ricordi per rivedere tutto quello che ho perso: mamma, papà, Billy… tutta la mia famiglia.
Mi dirigo verso l’estremità opposta della stanza. La soffitta è piccola, come il resto della casa. Le pareti in calcestruzzo su entrambi i lati dell’edificio ci separano dalle case accanto. Quando ero ragazzina, lessi una serie di thriller in cui l’assassino strisciava di sottotetto in sottotetto per sbirciare nelle abitazioni dei vicini. Mi terrorizzò al punto che non riuscii più a chiudere occhio, finché un giorno papà, sbellicandosi dalle risate, mi portò in soffitta e mi mostrò quelle pareti divisorie.
La maggior parte delle scatole sono bianche. Trovo subito quella che mi serve: è di cartone comune, un po’ più piccola delle altre, poco distante da me. Avanzo a passo lento e impiego molto più del necessario a raggiungerla. Prendo tempo, fingendo di controllare dove metto i piedi.
I lembi della scatola sono aperti e i brandelli di scotch, che ormai non incollano più, penzolano lungo i lati come inutili viticci arricciati. Strano, perché ho il distinto ricordo della mamma che, con estrema cura, rivestiva il pacco di uno strato di carta da pacchi e poi ne fissava i due lembi con lo scotch. La stessa donna che tappava le creme solari con l’adesivo quando, ogni tanto, andava via per il week-end con papà.
Mi chino e spalanco la scatola. Sembra che qualcuno l’abbia rovistata. Chi può essere stato? Non c’è modo di capire se sia accaduto la settimana scorsa o sedici anni fa. Provo a convincermi che sia un dettaglio insignificante, ma mi si forma in gola un groppo grande come una noce.
Non ho la forza di passare in rassegna l’intero contenuto della scatola. Un giorno lo farò, quando sarà il momento. Per ora, mi limito a cercare l’agenda sulla quale la mamma annotava i numeri di telefono.
Estraggo un quadernino, convinta che sia quella, invece è un libretto di preghiere bianco con il nome di Billy stampato sulla copertina a caratteri dorati. Forse il dono di un compaesano di buon cuore per confortare mamma e papà. Mentre lo sollevo, ne scivola fuori qualcosa che si era incollato dietro la copertina.
È una lettera.
Osservo la grafia e un brivido mi percorre da capo a piedi. Non è una lettera qualunque: è una lettera di Gareth.
Trasalisco, pietrificata per qualche secondo. Sono sicurissima che tutta la posta che mi aveva inviato era stata distrutta.
Con mani sudate e incerte, la estraggo dalla busta e la apro. E mi ritrovo a leggere le sue parole velenose.
Mia carissima Rose,
mi dispiace molto per la tua terribile perdita.
Un giorno scoprirai che sono innocente. E allora capirai di avermi tradito, abbandonato nel momento del bisogno. Io non ti avrei mai abbandonata, Rose, ma ti perdono. TI PERDONO per non avermi ascoltato, aiutato…
HO BISOGNO DI PARLARTI, ROSE.
Non è troppo tardi. Ci sono cose che devo dirti… cose che proverebbero la mia innocenza, così tu e io potremmo tornare insieme.
Mi dispiace tanto per quello che è accaduto al povero Billy, ma non è stata colpa mia, mio tesoro. Il vero assassino è ancora libero e vive la sua vita impunito.
Nessuno mi ascolterà. Nessuno vuole stare a sentire che non ho fatto niente. L’intero paese mi ha condannato nel momento stesso in cui Billy è sparito.
Ma mi aspettavo di meglio da te, Rose. Credevo sinceramente che tu mi amassi.
HO BISOGNO DI PARLARE CON TE. Ti prego, Rose. L’assassino di Billy dev’essere punito SUBITO.
Non importa se vicini o lontani, Rose, ricordalo sempre… tu sarai MIA PER SEMPRE.
Con tutto il mio amore,
G
Accantono la lettera e chiudo gli occhi, pregando che le sue vili parole e menzogne mi lascino in pace. Non avrei mai dovuto leggerla.
Tremo, incrocio le braccia sul petto e mi stringo forte, dondolando avanti e indietro.
Come fa a esercitare ancora tanto potere su di me, dopo tutti questi anni? Come ho potuto andare a trovarlo… dargli l’opportunità di controllarmi di nuovo?
Dopo qualche istante, riprendo il contegno e recupero l’agenda della mamma. In fondo, proprio dove l’avevo lasciata, c’è una piccola busta bianca contenente un frammento di carta.
Mentre ripongo il resto nella scatola, mi cade l’occhio sul titolo di un giornale ripiegato:
ARRESTATO UN UOMO, VENTOTTO ANNI, PER L’OMICIDIO DEL BAMBINO
Le parole di Gareth mi rimbalzano nella mente: Il vero assassino è ancora libero e vive la sua vita impunito.
Prendo la busta e mi alzo per scendere. Lascio la scatola aperta e in disordine. Proprio non capisco come una scatola piena di oggetti possa esercitare un tale controllo su di me… ma non posso più accettarlo.
Spengo la luce e scendo la scala.
Vado alla porta per controllare la posta e mi blocco. C’è qualcosa, incastrato nella fessura.
Avanzo e lo sfilo dalla porta. È una busta marroncina e consumata, con una finestrella. All’interno c’è un foglio di carta bianca ripiegato.
Senza spostarmi da lì, lo apro e leggo le sei parole stampate.
Non svegliare il can che dorme.