Capitolo sessanta

Rose

Oggi

«Devi esserti sbagliata, Rose», dichiara la signorina Carter con tono gelido. «Ti prego di ricontrollare».

Ha appena fatto la sua apparizione al bancone per restituire tre libri, tutti in ritardo di un giorno. È prevista una piccola sanzione da pagare, ma lei non sente ragioni.

Sospiro e ripasso il lettore ottico sul primo libro.

«Ecco, vede?». Giro il monitor per mostrarglielo. «Il prestito scadeva il 23, signorina Carter».

Lei tende le labbra in una linea sottile e raddrizza il busto. «E che giorno sarebbe oggi, se mi è dato saperlo?»

«È il…». Abbasso lo sguardo sull’angolo a destra del monitor. «Oh!».

«Appunto». Il volto della signorina Carter si illumina di soddisfazione per aver avuto ragione. «Oggi è il 23, Rose».

«Sono mortificata, non so proprio come…», farfuglio, sentendomi avvampare. «Ero convinta che fosse il 24. Sono una stupida. Mi dispiace moltissimo, signorina Carter».

«Non importa, Rose», replica lei con tono caritatevole. «Capita a tutti di sbagliare».

E figurati se a me non capitava proprio con l’integerrima signorina Carter.

«Mi spiace», mormoro di nuovo, posando i libri da una parte, con la speranza che lei si allontani il prima possibile verso la sezione dei romanzi rosa.

Torno a immergermi nei pensieri che mi affollano la mente.

La cassetta nella quale ho imbucato la lettera ieri sera prevede il ritiro alle 9:30.

Se è un carcere efficiente, Gareth Farnham potrebbe ricevere la lettera già domani. Sarà così? So che gli addetti devono controllare il contenuto di qualsiasi comunicazione, ma io ho scritto solo poche righe, non devono mica spulciare l’intero Guerra e Pace di Tolstoj.

«Rose!».

L’esclamazione brusca mi fa alzare il capo di scatto e vedo la signorina Carter ancora davanti a me, china sul bancone per guardarmi dritta negli occhi.

«Ch… chiedo scusa!», balbetto. «Stavo solo…».

«Stavi vagando tra le nuvole, ecco cosa facevi», osserva la donna indispettita. «Ho chiesto, come sta il signor Turner?».

La fisso.

«Il tuo vicino?»

«Ah! Sì, molto meglio, grazie. È a casa e si sta riprendendo bene. A breve dovrebbe arrivare il figlio dall’Australia».

«Eric? Ma pensa. Spero non torni solo per reclamare i propri diritti sull’eredità; non è mai stato un granché come figlio e credo che Ronnie possa contare sulle dita di una mano le visite che ha ricevuto da lui negli ultimi dodici anni. Ma senza dubbio gli farà piacere». Sospira. «Mi metterò d’accordo con la signora Brewster per passare a trovarlo più tardi».

«Sta recuperando la mobilità a poco a poco, ma passa ancora molto tempo a letto», mi affretto a precisare.

«Non importa, non ci tratterremo a lungo». Mi rivolge un sorriso tirato e finalmente si allontana dal bancone per dirigersi verso la sezione di narrativa.

Dopo nemmeno un’ora, un uomo abbronzato in jeans e giacca sportiva fa il suo ingresso in biblioteca e si avvicina alla mia scrivania. «Ciao, Rose», saluta con un curioso accento misto, lo sguardo rivolto agli scaffali di libri che mi circondano.

«Eric! Non ti aspettavo, Ronnie diceva che avresti telefonato».

Scaccio dalla mente i pensieri vietati, il segreto che non dovrei conoscere.

«Figurati se non capiva fischi per fiaschi». Eric alza lo sguardo al soffitto. «Comunque sia, eccomi qui. Mi chiedevo se tu avessi la chiave di riserva, per evitare che si alzi dal letto per aprirmi».

«Ma certo. Solo un secondo». Rovisto nella borsetta e gli porgo la chiave. «Come stai?»

«Bene, grazie. E tu?». Eric ha la spiacevole abitudine di non guardarti mai negli occhi quando ti parla. Ricordo di averlo notato ai tempi in cui viveva ancora nella casa accanto.

Forse si è sempre sentito diverso senza sapere il perché. Forse i suoi genitori gli sembravano degli estranei alle volte e lui dava la colpa a se stesso. Un segreto di cui non sapeva nulla, ma che celava un’effettiva verità e lui la percepiva.

«Sto bene anch’io, grazie», rispondo, anche se mi sento uno schifo.

Segue qualche istante di silenzio. In realtà non abbiamo mai avuto niente da dirci. Eric ha tre anni più di me ma, nonostante fossimo vicini di casa, non abbiamo mai fatto lo sforzo di andare d’accordo.

Lui era un cocco di mamma. «Sempre appiccicato alle sottane di sua madre», si lamentava la mia. Diceva che non poteva mai spettegolare in pace con Sheila senza che ci fosse Eric tra i piedi.

Io lo ricordo come un tipo solitario, ma Ronnie e Stella lo trattavano da principe. Non che la cosa abbia giovato a nessuno: di punto in bianco, lui ha levato le tende e nessuno lo ha più visto.

In un certo senso, ora comprendo meglio la sua decisione.

«Adesso sarà meglio che vada dal mio vecchietto rimbambito», dice sorridendo. «Ci vediamo».

 

I giorni si trascinano. Lavoro, casa, letto… il tutto arricchito dai continui controlli alle porte, alla strada davanti a casa, al cortile sul retro.

Più quelli che riservo a Ronnie due o tre volte al giorno.

La verità è che, nonostante i miei sforzi, non riesco a pensare ad altro: Gareth Farnham avrà letto la mia lettera?

Forse non l’ha ancora ricevuta. È così frustrante. Potrei telefonare al carcere, ma dubito che me lo direbbero.

Ecco che mi controlla di nuovo, pur non essendone consapevole stavolta.

Cinque giorni dopo aver spedito la lettera, alla fine dell’ennesimo, irrilevante turno di lavoro, riesco a frenare il desiderio impellente di comprare cibi di conforto al supermercato e marcio dritta verso casa sotto la pioggia leggera.

Di solito vado e vengo dalla porta sul retro, ma dato che piove opto per l’ingresso principale e mi introduco nel mio atrio minuscolo.

Mi tolgo l’impermeabile con un brivido e mi volto per appenderlo al gancio accanto alla porta. Sento qualcosa sotto il piede, abbasso lo sguardo e mi accorgo di aver calpestato la posta inavvertitamente.

Accendo la luce, ignorando le gambe tremanti, e mi chino a raccoglierla. Il volantino di una pizzeria con consegne a domicilio, la pubblicità di un’assicurazione sulla casa indirizzata in modo generico al PROPRIETARIO e una busta bianca con il mio nome e indirizzo stampati con cura sulla parte anteriore.

Lascio cadere il resto e mi rigiro la busta tra le mani. Niente suggerisce che arrivi dalla prigione ma, per qualche ragione, sembra diversa. Ci sono un codice a barre adesivo e un paio di scritte a mano illeggibili, come se avesse dovuto superare una specie di procedura di controllo.

Finché non apro la busta, non lo saprò.

Chiudo la porta a chiave e tiro il chiavistello, mi tolgo le scarpe nel punto in cui mi trovo e getto la borsa a terra. Poi mi siedo, infilo l’indice in un angolino non sigillato della busta e ne estraggo un unico foglio ripiegato.

Lo apro e lo stendo sulle ginocchia. Rimango delusa perché non è una lettera di Gareth Farnham, ma quando leggo la prima riga cominciano a tremarmi le mani.

Mi costringo a scorrere anche il breve paragrafo sottostante, puntando i gomiti contro i fianchi e deglutendo a fatica, lo sguardo fisso sull’intestazione del foglio stampata in grassetto.

 

PERMESSO DI VISITA

Il detenuto 364599 Gareth Benjamin Farnham ha accettato la richiesta di visita.

Si prega di selezionare di seguito tre possibili date e orari per la visita.

Riceverà un’e-mail di conferma entro tre giorni lavorativi.

 

Accartoccio il foglio e lo getto a terra, lontano dai miei piedi.

Sento una morsa che mi stritola il petto quando comprendo le implicazioni contenute nella nota. Perché non mi ha scritto e basta? Non avevo considerato quest’eventualità…

Com’è possibile che riesca ancora a destabilizzarmi? Ho l’impressione di essere io la prigioniera.

Lascio la lettera sul pavimento e vado a stendermi in camera. Un solo pensiero mi rimbomba di continuo nella testa.

Non posso andare a trovarlo.

Proprio non posso.

Non fidarti di lui
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