Capitolo sessantadue
Carcere di Wakefield, oggi
Rose fu costretta a fare il giro del parcheggio del carcere due volte prima di trovare un posto.
In circostanze diverse, avrebbe finto di essere nel posteggio di un centro commerciale… ma poi scese dall’auto e guardò alla sua destra. Di fronte a lei giaceva un edificio desolato color biscotto, con il tetto verde scuro e piatto, circondato da una lunga e imponente cinta muraria, che sembrava sfidarla ad avvicinarsi.
Rose chiuse la portiera a chiave e, borsa in spalla, avanzò verso il viale pedonale che conduceva alla prigione. Era consapevole di camminare troppo lentamente, trascinava i piedi e percorreva il tragitto più lungo, anziché tagliare in mezzo alle automobili parcheggiate.
Ma si concesse il tempo di cui aveva bisogno. L’importante era giungere alla meta, non quanto impiegava ad arrivarci. In fondo, aveva aspettato sedici anni.
Il cielo grigio non creava nessun contrasto con i colori cupi attorno a lei. Pesanti nuvole cariche di pioggia sovrastavano gli alberi alle spalle del carcere, minacciando di traboccare da un momento all’altro.
Mentre Rose raggiungeva l’edificio, le porte elettriche si aprirono con un soffio e ne emerse una coppia anziana. L’uomo cingeva con un braccio le spalle della donna, le cui guance erano rigate da lacrime irrefrenabili.
Tentò di non fissarli, ma ignorarli era impossibile. A mano a mano che si avvicinava all’ingresso, il suo cuore accelerava i battiti.
«Rose Tinsley», annunciò alla reception. «Sono qui per Gareth Farnham».
La donna di mezza età dietro al bancone controllò i documenti e le chiese di firmare il registro, poi le diede indicazioni per la stanza delle visite.
«Percorra tutto il corridoio, poi giri in fondo a destra. Verrà sottoposta a un paio di controlli di sicurezza, poi potrà procedere con la visita». Le sorrise, presumendo che Rose non aspettasse altro.
Il livello del rumore che le aggredì le orecchie sulla soglia della stanza la colse alla sprovvista.
Rose rimase pietrificata per qualche secondo a perlustrare con gli occhi la sala gremita. Uomini, donne e bambini, radunati a piccoli gruppi, ronzavano attorno come sciami di insetti.
Non sapeva cosa aspettarsi, ma nella sua ingenuità aveva immaginato un luogo tranquillo, con una guardia carceraria in piedi accanto al tavolo al quale avrebbe incontrato Gareth Farnham.
In effetti c’erano diverse guardie, sparse qua e là per la stanza, ma – Rose non poté fare a meno di constatare – non abbastanza vicine da impedire a un detenuto di tirare un pugno in faccia a qualcuno, se non peggio, se gli fosse saltato in mente di farlo.
Rose deglutì a fatica e osservò il fiume di teste attorno a lei.
La stanza era organizzata in modo spartano, con file di tavoli bassi e bianchi, ognuno accompagnato da quattro sedie nere di plastica dura.
Si stupì che i tavoli fossero tanto vicini da oscillare e traballare ogni volta che i bambini si infilavano correndo tra l’uno e l’altro, brandendo giocattoli da portare ai genitori noncuranti, che sembravano assorti in profonde conversazioni o si fissavano con aria d’accusa senza avere granché da dirsi.
«Permesso», disse qualcuno alle sue spalle con tono seccato.
«Scusi». Rose si affrettò a spostarsi dalla soglia che stava ostruendo ed entrò nella stanza. Ciononostante, non riusciva ancora a trovare il coraggio di avvicinarsi ai tavoli delle visite.
«Tutto bene?», chiese una poliziotta corpulenta con i capelli castani corti e un sorriso amichevole. «Prima volta?».
Rose annuì, contenta che qualcuno si prendesse la briga di preoccuparsi per lei. «Sì, sono venuta a trovare…». Perlustrò la stanza di nuovo per controllare se nel frattempo fosse comparso, poi tornò con lo sguardo alla poliziotta. «Gareth Farnham».
«Capisco». Rose era certa di averla vista sgranare leggermente gli occhi e fissarla con più attenzione prima di voltarsi verso la sala. «Non è ancora uscito, ma può aspettarlo al tavolo libero nell’angolo in fondo. Non riceve molte visite».
Restava solo una manciata di posti liberi e Rose si diresse verso quello indicato dalla guardia.
Si rese conto di aver trattenuto il fiato fino a quel momento e così, avanzando verso il tavolo vuoto, si sforzò di rilasciare la tensione che le attanagliava il petto.
Spostò una sedia e strizzò gli occhi sentendola stridere sulle piastrelle del pavimento, ma nessun altro sembrò notare quel cigolio irritante, in mezzo al chiasso della conversazione.
Rose posò la borsetta sulla sedia accanto e alzò lo sguardo, sollevata di vedere un poliziotto in uniforme con la schiena al muro, abbastanza vicino al suo tavolo.
Con grande fatica, attivò la respirazione “rilassante” – ovvero, dentro dal naso contando fino a tre e fuori dalla bocca contando fino a sei – poi intrecciò le mani di fronte a sé e si mise a fissarle.
Non voleva guardare gli altri detenuti e le loro famiglie. Parlavano, ridevano e, mentre attraversava la stanza, ne aveva scorti alcuni in lacrime, incuranti del contesto circostante. La maggior parte sembrava perfettamente a proprio agio in una situazione che ormai doveva essere diventata normale.
Rose si stupì dell’ambiente spoglio e desolato della prigione. Come gran parte della gente, aveva letto sui giornali della vita di agi e comodità che i criminali conducevano nei confortevoli istituti penitenziari britannici, ma ora che ne vedeva uno con i propri occhi non sapeva se crederci.
Si respirava un’aria d’abbandono lì dentro, e l’assenza di speranza permeava ogni cosa.
Rose immaginò che chi era costretto a trascorrere giorno e notte in quel luogo per un certo periodo di tempo avrebbe cessato ben presto di prospettarsi un futuro roseo. Ancora più inverosimile le pareva l’idea che uno potesse ricominciare da capo nel mondo esterno, una volta scontata la pena.
Rose avvertì la presenza di una figura… un’ombra che incombeva su di lei.
Vide spostarsi la sedia di fronte e, di colpo, eccola lì… a guardare Gareth Farnham negli occhi.