Capitolo tredici

Rose

Oggi

 

Dopo il lavoro, prendo l’auto e punto dritta al Kings Mill Hospital per vedere come sta Ronnie.

Conosco il numero del reparto, perciò supero la reception e seguo le indicazioni che conducono ai piani superiori.

L’orario di visite è già iniziato, così non devo mettermi in fila. Suono il citofono all’ingresso del reparto sorvegliato e mi protendo in avanti per parlare con la voce incorporea. «Sono qui per fare visita a Ronnie Turner. Sono un’amica, la sua vicina di casa».

Nessuna risposta tranne un sonoro clac d’apertura, allora spingo la pesante porta antincendio.

Addentrandomi nel reparto, vengo assalita dall’odore di antisettico e il vacuo silenzio del corridoio esterno viene rimpiazzato dal brulicante andirivieni del personale indaffarato e delle visite ai pazienti. Mi avvicino a un’infermiera al bancone della reception.

Le spiego di nuovo chi sono. «Sono più che una vicina per Ronnie, a dire il vero», preciso. «Sono una cara amica. Ho chiamato io l’ambulanza».

«Capisco. Ebbene, temo che Ronnie stia riposando al momento», replica lei. «Questa mattina ha avuto una piccola ricaduta».

«Una ricaduta?». Deglutisco, ansiosa di conoscere il seguito.

«Soffre di crisi respiratorie, perciò i dottori gli hanno attaccato l’ossigeno e lo hanno sedato leggermente».

«Posso vederlo, solo per qualche minuto?», chiedo, ma lei scuote il capo.

«Non è cosciente al momento; non si accorgerebbe neanche della sua presenza. Farà meglio a tornare domani, ma le suggerisco di telefonare prima in reparto per assicurarsi che il paziente sia pronto a ricevere visite».

«Va bene», rispondo rassegnata. «Può avvisarlo che sono passata?».

La donna annuisce, già distratta da un altro visitatore.

Nella strada verso casa, ripenso alle parole dell’infermiera e ricorro al solito stratagemma: ripetermi che le cose sarebbero potute andare peggio. Sto malissimo al pensiero di andarmene senza aver visto Ronnie. Mi preoccupa che al suo risveglio sarà l’unico paziente senza visite al capezzale.

So che è proprio in questi momenti che gli anziani si sentono soli e trascurati, come se a nessuno importasse più niente di loro.

Mi spremo le meningi. Ora come ora non posso vederlo di persona, ma ci sarà senz’altro qualcosa che posso fare per dimostrargli la mia vicinanza… e che sto pensando a lui.

Finalmente mi viene un’idea.

La casa di Ronnie è in pessimo stato. Il minimo che possa fare è renderla pulita e accogliente per il suo ritorno.

Sono certa che farebbe una bella differenza.

Tornata a casa, mi preparo un panino al pomodoro e formaggio e una tazza di tè. Non mi va altro, nonostante il frigorifero e la dispensa siano ancora pieni di tutte le provviste sfiziose della mia ultima, gigantesca spesa compulsiva.

Mia madre era una fanatica dei fornelli e adorava cucinare pietanze luculliane da zero. Io in pratica scaldo solo cibi già pronti e a volte mi rendo conto che dovrei sforzarmi almeno un po’ per preparare con le mie mani qualcosa di genuino e nutriente.

Credo dipenda da una questione generazionale: oggi alle donne viene inculcato che nella vita ci sono un sacco di cose più importanti di cui occuparsi anziché cucinare, come se trarre piacere dalle attività domestiche fosse umiliante. Pare ci sia sempre qualcuno che sa meglio di noi donne ciò che le donne dovrebbero fare.

Dopo aver finito il tè, mi assale la stanchezza. Ho poca energia, è così da sempre. Avrei una gran voglia di riempire la vasca da bagno e immergermi per una mezz’oretta, poi andare a letto presto con una vaschetta di gelato e l’ultimo libro che sto leggendo: uno dei titoli in lizza per il Man Booker Prize.

In qualità di bibliotecaria, avverto spesso la pressione di dover dare il buon esempio leggendo i pezzi grossi della letteratura, ovvero il genere di libri in cui, per capirci qualcosa, mi ritrovo a tornare indietro di continuo per rileggere l’ultima mezza pagina.

Questa è proprio una di quelle sere in cui preferirei un bel romanzetto femminile.

Tuttavia, concedermi un bagno caldo e andare a letto presto non gioverà a Ronnie. Perciò prendo un paio di detersivi dal mobiletto, afferro qualche strofinaccio e mi dirigo verso la casa accanto.

Lascio accese le luci e chiudo la porta sul retro, poi faccio scivolare le chiavi nella tasca del maglione. Fuori è buio e l’aria fresca mi sferza le mani e il viso.

Il mio cuore accelera i battiti, pulsando contro il petto con ritmo irregolare. Provo a tranquillizzarmi a parole, come mi ha insegnato la terapista tanti anni fa.

Sto bene. Sono al sicuro. Ora respiro a fondo per calmarmi.

Apro il cancelletto, lo stesso che da bambina ho attraversato centinaia di volte per andare a trovare Ronnie e Sheila.

La mia mente schizza all’indietro e indugio per qualche istante sul cancello, concedendomi un tuffo nel passato. Rivedo mamma e papà in salotto. Billy sta costruendo uno dei suoi capolavori Lego sul tavolo della cucina e io sono in questo stesso punto e sto portando a Sheila l’ultimo numero di «Woman’s Own», che la mamma ha finito di leggere.

Un cane abbaia in un giardino poco distante e la visione si dissolve. Premo la mano contro il cancelletto e sento il legno umido e scheggiato sotto le dita.

L’attimo che immaginavo è esistito davvero in passato, eppure allora non ci facevo caso. La mia famiglia era sempre lì. Niente per cui sentirsi grati; anzi, spesso era proprio il contrario. C’erano un sacco di motivi per irritarsi: mamma e papà che battibeccavano per i soldi; Billy che continuava a chiedere questo e quello o mi assillava per giocare un’altra infinita partita a Monopoli.

Mi seccavano. All’epoca mi sembrava non facessero altro.

Quanto vorrei che fossero ancora qui a seccarmi. Vorrei essermi presa del tempo per parlare con papà di quello che provava, privato da un giorno all’altro del lavoro e del suo ruolo nella comunità. Vorrei aver proposto alla mamma di fare una passeggiata insieme nei prati dell’abbazia, tanto per uscire di casa e discutere di qualcosa che non fosse la mancanza di soldi o di papà che beveva troppo.

E Billy. Quanto vorrei avere un’altra occasione per passare del tempo con mio fratello.

Avrei dovuto giocare un migliaio di partite a Monopoli con lui e insegnargli a restare al sicuro. Avrei dovuto insistere che era giusto voltare le spalle e allontanarsi da qualsiasi situazione gli creasse disagio.

Anche se implicava fare i maleducati con qualcuno di nostra conoscenza.

Qualcuno come Gareth Farnham.

Sento sbattere le portiere di un’automobile in strada e riemergo dalla foschia del passato. Non giova a nessuno, indugiare nelle reminiscenze. Tantomeno a me.

I rimpianti non risolvono nulla. I rimpianti non mi restituiranno la mia famiglia, questo è certo.

Cerco nella tasca la chiave di riserva di Ronnie. Ha abitato per anni nel cassetto della mia cucina, ma in tutto questo tempo non ho mai avuto occasione di usarla.

Ronnie non si è mai ammalato seriamente prima di adesso. Non va mai in vacanza – nemmeno per un week-end – e a parte un salto nei negozi del paese o, di rado, allo Station Hotel per una birra, non esce mai di casa.

Una cosa è sicura: in futuro, non voglio rimpiangere di non aver fatto il possibile per lui nel momento del bisogno. Voglio aiutarlo meglio che posso e ripagarlo almeno in parte della gentilezza che ha dimostrato a me e alla mia famiglia nel corso degli anni.

Lui si è sempre prodigato per aiutare chiunque ed è giunto il momento di offrirgli la mia gratitudine personale. Penso alla signorina Carter e alla sua colletta di “pronta guarigione”, e alla proposta di Jim di prendersi cura del giardino di Ronnie mentre è in ospedale.

C’è tanto amore per lui in questa comunità.

Apro la porta, entro nella cucina di Ronnie e accendo la luce. C’è puzza di chiuso qui dentro. Non ci ho mai fatto caso prima, ma non può essersi materializzata dall’oggi al domani.

Mi rendo conto, con una certa vergogna, che non ho notato fin troppe cose riguardanti Ronnie. È sempre stato una figura rassicurante sullo sfondo; sempre presente, fino a oggi. Come la mia famiglia, suppongo.

Poso i detersivi sul piano da lavoro della cucina. A quanto pare, la degenza di Ronnie in ospedale si prolungherà più del previsto, ma non importa.

Quando stasera rincaserò, le stanze al piano terra di questa casa saranno pulite e immacolate, pronte per il suo ritorno.

E domani, nonostante la curiosa richiesta che mi ha fatto mentre lo portavano in ospedale, intendo affrontare anche il primo piano.

Non fidarti di lui
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