Capitolo quattro
Sedici anni prima
La pioggia cominciò a scendere più fitta mentre costeggiavano la recinzione della scuola primaria.
Rose rabbrividì davanti ai bambini in poliuretano colorato allineati sul marciapiede. Erano solo delle sagome, un segnale visivo per gli automobilisti in transito accanto alla scuola; occhi che non vedevano scrutavano il loro passaggio, le piccole bocche immobili che celavano a malapena la disapprovazione.
In lontananza, comparvero alla vista le ville in mattoni a schiera, tetre contro il cielo grigio. Costruite in origine per i minatori, erano state progettate per durare nel tempo e, benché lo scopo iniziale fosse ormai andato perduto, si ergevano ancora solide e fuse una nell’altra come anelli di una catena d’acciaio.
«Ora posso portarlo io, se vuoi». Rose rallentò il passo e allungò verso la cartelletta il braccio appesantito dagli altri due carichi. «Grazie dell’aiuto».
Gareth strinse il portfolio a sé.
«Non è un problema portarti fino a casa». Sorrise. «Ti accompagno».
Il cuore di Rose si mise a martellare. Cosa sarebbe successo se la mamma l’avesse vista con Gareth o, ancora peggio, se l’avesse vista il papà? Detestava l’idea di fornire nuovi pretesti per lagnarsi di lei.
Da quando la miniera aveva chiuso, il padre era diventato imprevedibile e trascorreva la maggior parte del tempo allo Station Hotel, a sorseggiare lo stesso boccale di birra per tutta la sera per evitare discussioni accese con la moglie sullo sperperare fondi preziosi per un paio di bicchieri di troppo.
Quando la vecchia miniera cessò l’attività, Ray Tinsley aveva trentasette anni. Lavorava lì da sempre, dopo aver lasciato la scuola a quindici anni. Ray era un addetto agli scavi: trascorreva dodici ore al giorno, o anche la notte, a una temperatura di trentotto gradi, in ginocchio a scavare tunnel poco più alti o larghi del proprio corpo.
Era il lavoro più duro ma retribuito meglio, perciò Ray e i suoi colleghi guadagnarono un certo status nella comunità locale. Dal momento che gli straordinari erano parecchi, i soldi non erano mai stati un problema a casa Tinsley.
Il giorno in cui la miniera chiuse i battenti, raccontò Stella alla figlia anni dopo, Ray aprì un conto di deposito e vi versò l’indennità di licenziamento, convinto che lui non sarebbe finito nel “mucchio degli scarti” come prevedevano alcuni e perciò non avrebbe avuto bisogno di quel denaro per molto tempo.
«Non sono vecchio, ho ancora tanto da offrire», dichiarò con sicurezza salutando di buon mattino la moglie e la figlioletta di cinque anni, per recarsi al centro dell’impiego nel suo primo giorno di disoccupazione.
Si propose con solerzia per svariati impieghi nella zona, spingendosi fino ai calzaturifici in sviluppo di Mansfield e Nottingham. Ma anche gli altri minatori disoccupati avevano fatto lo stesso e alcuni erano più giovani di lui.
Due mesi dopo che il marito aveva perso il posto, Stella notò che le sue domande d’impiego erano calate. Ray si muoveva con passo più lento, le spalle più basse. Nessuno sembrava avere il minimo interesse ad assumere un uomo dalle competenze minerarie così specifiche e ormai alla soglia dei quarant’anni.
«Allora, che dici, Rosie?»
«Cosa?». Rose tornò al presente con un sussulto. Sentì la valigetta dei colori scivolarle nella mano umida. L’aveva chiamata Rosie. Nessuno la chiamava così, a parte il nonno quando era piccola.
«Eri assorta nei pensieri», commentò Gareth con un sorriso. «Ti ho chiesto se ti piacerebbe venire con me all’Odeon di Mansfield, magari mercoledì sera?».
Rose lo vide scrutare preoccupato le nuvole cariche di pioggia. «Non sei obbligata, ci mancherebbe, è solo che essendo nuovo nella zona e tutto il resto… non conosco ancora nessuno. Mi fa un po’ tristezza passare tutte le sere da solo davanti alla TV, capisci?».
Rose rammentò il suo inizio al West Notts College di Mansfield. Anche altri studenti della sua vecchia scuola, che conosceva solo di vista, si erano iscritti nello stesso college. Ma nessuno frequentava il corso d’arte, perciò lei trascorreva l’intervallo e la pausa pranzo sempre sola, guardando gli altri che ridevano e commentavano le lezioni.
Aveva odiato quella situazione al punto da progettare di mollare la scuola e cercarsi un lavoro. Quella fantasticheria includeva mollare tutto quanto, genitori compresi. Poi Cassie aveva lasciato il corso di parrucchiera al Clarendon College di Nottingham e si era iscritta a quello di arte che frequentava Rose.
Tipico di Cassie. Sempre tira e molla, avanti e indietro.
«Non per farti pressione, ma cosa ne dici?», insisté Gareth. «Scegli tu il film?».
Lui era troppo grande per Rose, ma rispondergli con un secco “no” sarebbe stato scortese. Inoltre, il pensiero di sfuggire all’orribile atmosfera di casa, anche solo per una sera, la tentava.
Non accadeva mai niente di nuovo o eccitante da quelle parti, ma qualcosa era successo proprio a lei.
Sarebbe stata una sciocca a rifiutare l’invito. Oltretutto, vedere la faccia di Cassie, non appena le avesse riferito del suo appuntamento, non aveva prezzo.
«Grazie», si sentì rispondere. «Sarebbe proprio bello andare al cinema».
Più si avvicinavano a casa, più Rose si agitava. Gareth continuava a chiacchierare e lei dovette chiedergli più volte di ripetere.
Se il padre fosse stato sulla solita sedia con lo schienale a rete, a guardare fuori dalla finestra come capitava spesso, le avrebbe fatto il terzo grado per ore.
Quando Rose si rintanava subito in camera sua, la rimproverava di non aiutare la madre con la cena. Se si tratteneva al piano terra troppo a lungo, lui metteva in dubbio che si impegnasse a sufficienza per il corso. Rose era arcistufa del mantra incessante: «Ci costa un sacco di soldi pagarti gli studi, lo sai, vero?».
Gareth sembrò percepire il suo disagio. Quando Rose gli comunicò che avevano imboccato la sua via, le restituì la cartelletta chiazzata dalla pioggia.
«Allora, mi dai il tuo numero?», le chiese, tirando fuori dalla tasca un cellulare Nokia.
«Io… non ho un telefonino», confessò Rose.
«Cosa? Come mai?».
Rose non aveva intenzione di rivelare che a casa sua non si potevano permettere di comprare cellulari. Non era neanche riuscita a trovarsi un lavoretto in paese per il sabato; in quel posto non c’era niente di niente. Da poco prestava servizio come volontaria in biblioteca il mercoledì pomeriggio, perché non aveva lezioni, ma non le davano un centesimo; semplicemente, le piaceva stare in mezzo ai libri.
Detestava dipendere da mamma e papà per ogni minima cosa. Si sentiva una bambinetta e pure in colpa perché non dava il suo contributo. Soprattutto ora che la scarsità di liquidi pareva essere la principale causa di contrasto tra i suoi genitori.
«Non importa». Gareth le fece l’occhiolino. «Dammi il tuo numero di casa, così ti chiamo per metterci d’accordo per mercoledì».
Rose aprì la bocca e la richiuse di nuovo. Non poteva dargli il numero di casa, perché non voleva che i genitori sapessero della sua intenzione di rivederlo. Ma se glielo avesse confessato, avrebbe fatto la figura della poppante.
Gareth la scrutò per un istante, poi la sua espressione si distese in un ampio sorriso.
«Ah, ho capito. Devo rimanere il tuo piccolo, sporco segreto, giusto?»
«No!», esclamò lei mortificata. «Non è affatto così. È solo che… be’, mio padre, lui…».
«Non dire altro». Le dita di Gareth rimasero sospese sulla tastiera del cellulare. «Dammi il numero così ti chiamo domani sera; non sapranno chi sono. Per le otto va bene?»
«Ma…».
«Devi solo farti trovare accanto al telefono. Penseranno che sono una tua amica».
Rose non era convinta dell’accordo, ma lui pareva talmente entusiasta che non voleva far scoppiare quella bolla di sapone. Pensò di dettargli una cifra sbagliata, ma poi come avrebbe fatto Gareth a contattarla? Sembrava così gentile. E anche se lei intendeva ingigantire la faccenda dell’appuntamento di fronte a Cassie, in fondo non si trattava d’altro che fargli compagnia al cinema, perché Gareth non conosceva nessuno da quelle parti.
Niente di sospetto. Perfino il padre, se non fosse stato così teso in quel periodo, avrebbe capito.
L’incontro con Gareth era un’occasione troppo bella per lasciarsela sfuggire. Era ancora prematuro, Rose lo sapeva, ma poteva segnare l’inizio di qualcosa di positivo nella sua piatta vita di paese… Sempre che non avesse rovinato tutto permettendo alle proprie insicurezze e apprensioni familiari di intromettersi.
«Non ricordi il tuo numero di casa?». Gareth socchiuse gli occhi e per un brevissimo istante Rose temette che fosse seccato, poi lui le sorrise e lo sguardo gli si illuminò di nuovo.
Gli dettò rapidamente il numero.
«Bene», mormorò lui digitando le cifre sul cellulare. «Allora ti chiamo alle otto. Domani sera».
Lei annuì. Gareth ammiccò, sfoderando di nuovo il sorriso sexy che fece fare al cuore di Rose una doppia capriola.
Quando raggiunse il cancello di casa e si guardò indietro, Rose vide che la stava ancora guardando. Gareth la salutò con la mano e lei gli sorrise, ma aveva le mani occupate e non poté ricambiare il cenno.