Capitolo diciassette

Rose

Oggi

 

Esco dal bagno, intenzionata a scendere in cucina per recuperare secchio e straccio e dare una bella passata al pavimento, quando noto che la porta della camera di Ronnie è socchiusa.

Come a casa mia, la stanza da letto principale si affaccia sulla strada mentre la seconda, più piccola, dà sul retro.

La curiosità ha la meglio su di me e decido di dare una sbirciatina all’interno. So che metterei in imbarazzo Ronnie se fosse qui, ma desidero tanto che al suo rientro trovi tutta la casa a posto. Cambiargli le lenzuola e arieggiare la stanza farà una bella differenza, specialmente se dopo le dimissioni dovrà restare a riposo per un certo periodo.

Apro piano la porta e do un’occhiata in giro. Caro vecchio Ronnie, si è rifatto anche il letto e tutto sommato la camera è abbastanza in ordine. Passerò l’aspirapolvere anche qui, insieme al resto, ma per il momento mi limito a spalancare la finestra per cambiare aria.

Tornando sul pianerottolo, noto che la porta della seconda camera è ben chiusa.

Se Ronnie somiglia a me, la stanza degli ospiti sarà diventata una specie di discarica, usata per conservarci qualunque cosa. Altre cianfrusaglie che avrebbero dovuto essere buttate anni fa, presumo.

Potrei dare un’occhiata veloce anche lì dentro, così avrò passato in rassegna l’intera casa e avrò un’idea precisa su quello che c’è da fare.

Attraverso il pianerottolo, socchiudo la porta e infilo dentro la testa.

Non riesco a trattenere un sorriso. Avevo ragione: Ronnie usa davvero la stanza degli ospiti come discarica. Anzi, sembra ridotta anche peggio della mia, il che è tutto dire.

Scatole su scatole, piene di roba. Sembra tutto intoccato e mi domando quando sarà stata l’ultima volta in cui Ronnie ha messo piede qui dentro o ha avuto bisogno di qualcosa.

Un fruscio, seguito da un tonfo alle mie spalle, mi fa sobbalzare.

«Oh! Sei tu, Tina», dico alla gatta e lei mi fissa con aria d’accusa. «Sì, lo so. Ronnie mi ha detto di non salire e invece eccomi qua. Be’, resterà tra noi, okay? Dài, andiamo in cucina che ti preparo da mangiare».

Allungo la mano verso la porta per richiuderla, ma Tina mi sfreccia davanti e sparisce come un lampo tra le scatole accatastate.

Sospiro e mi dirigo verso le scale, lasciando la porta aperta. Uscirà da sola quando sarà pronta.

Mezz’ora più tardi, ho pulito anche le scale e il pianerottolo e la gatta è ancora rintanata nella stanza-ripostiglio. Avvolgo il filo dell’aspirapolvere e mi piazzo sulla soglia, le mani sui fianchi.

«È ora di uscire, Tina», chiamo rivolta alle scatole.

Un fruscio, una grattata e poi silenzio. Comincio a chiedermi se non ci sia un topolino là in fondo. C’è un odore strano, in effetti, ma sarà perché la camera rimane chiusa quasi tutto il tempo.

La finestra è sul lato opposto, bloccata da una barriera di scatoloni e sacchi dell’immondizia ricolmi di roba. Se nemmeno Ronnie ci entra mai, non vale la pena che mi spezzi il collo per arieggiare.

«Tina?».

Silenzio.

Me la immagino accovacciata là sotto, a godersi il piacere perverso di mettere alla prova la mia pazienza, com’è tipico dei gatti. Un simile ammutinamento richiede rimedi estremi. Scendo in cucina e torno con una lattina di cibo per gatti che ho trovato in un sacchetto sul piano da lavoro.

Fischio e schiocco la lingua, muovendo il contenitore per diffonderne l’aroma e stuzzicare Tina, ma lei non si muove.

«Okay, fa’ come ti pare». Sospiro e mi volto per andarmene.

Lascerò la porta della stanza aperta, così lei potrà uscire quando ne avrà voglia. Poi mi viene in mente che non so cosa ci sia dentro quelle scatole. Forse Ronnie chiude la porta per una ragione precisa.

Non mi va che rientri a casa senza preavviso mentre sono al lavoro e scopra che Tina ha rovinato stoffe o graffiato ricordi dal valore sentimentale.

Se però lascio la porta aperta, Ronnie scoprirà che ho ficcato il naso all’interno… non è proprio così, ma potrebbe sembrare.

Entro di nuovo e sposto qualche scatola per crearmi un varco verso il centro della stanza, dove sento rovistare Tina. Se solo riuscissi a scovarla, potrei acciuffarla e sbatterla fuori. Così Ronnie non lo verrebbe mai a sapere.

Per lo più, ci sono contenitori di cartone di quelli che si prendono liberamente accanto alle casse del supermercato. Non essendo veri e propri scatoloni da imballaggio con le ali che si chiudono a incastro, riesco a vedere il contenuto della maggior parte di essi mentre li sposto.

Giornali ingialliti, con articoli che un tempo avranno destato l’interesse di Ronnie o Sheila, pile di vestiti che odorano di muffa, scatole piene di fotografie ancora infilate nelle buste rosse e gialle della Kodak e un paio ricolme di vecchi cavi ormai inutilizzabili.

Deduco con una certa sicurezza che Ronnie non butta via niente da almeno un decennio.

Colgo una visione fulminea di pelo rossiccio mentre Tina si addentra sempre di più in fondo alla stanza, dietro un’altra montagna di scatole. Rimuovo anche quella e mi intrufolo rapida, afferro la gatta nel modo più delicato possibile e lei miagola indignata.

«Credevi davvero di potermela fare, signorina?».

Tento di schivare i suoi artigli tesi, tenendola ben lontana davanti a me per ripercorrere il varco attraverso la stanza, ma non sono abbastanza veloce e Tina mi aggancia il braccio con un’unghia uncinata, lasciandomi un brutto graffio.

«Ahia!». Barcollo e vado a sbattere contro una delle poche scatole di cartone con le ali ben chiuse, che cade a terra, riversando tutto il contenuto.

Senza mollare la gatta, scavalco il disastro, decisa a sistemare tutto dopo aver portato Tina di sotto.

Un triangolino di tessuto rosso cattura la mia attenzione.

C’è qualcosa in quella stoffa… nel colore…

Il mondo smette di girare per un secondo e il battito del cuore mi rimbomba nella testa.

Il mio cervello la riconosce al volo. Sembra proprio…

«La copertina di Billy», sussurro con voce così lieve che mi domando se ho davvero parlato.

A malapena mi accorgo che Tina mi sfugge dalle braccia con un sibilo perché la stringevo troppo.

Mi chino a toccare con il polpastrello l’angolo esposto del tessuto. Lana pettinata. Sofficissima.

Barcollo di nuovo. Sento le gambe molli e cado in ginocchio accanto alla scatola.

Afferro l’orlo del triangolino di stoffa tra indice e pollice e lo tiro verso di me. Il resto della copertina rossa emerge dal contenuto del pacco e me la ritrovo tra le mani.

La guardo con attenzione. Noto alcune chiazze di colore sbiadite.

La avvicino al viso e annuso.

Esiste un mucchio di copertine rosse, dice la vocina nella mia testa. Potrebbe trattarsi di una delle tante che somigliano a quella di Billy.

Può essere, rifletto, e la stringo più forte.

E poi la vedo, proprio lì nell’angolino. La piccola B dorata, ricamata dalla mamma. Studiata di proposito per rimanere discreta e non imbarazzare Billy, ma allo stesso tempo utile a identificare la copertina se si fosse smarrita.

Gli sforzi della mamma sono valsi allo scopo. Non c’è dubbio: questa è la copertina di mio fratello.

Quella che si era portato per il nostro picnic all’abbazia.

Quella che la polizia non riuscì mai a trovare.

Quella che Billy aveva con sé il giorno della sua morte.

Non fidarti di lui
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