Capitolo due
Rose
Oggi
Dalla mia postazione, tengo d’occhio l’orologio e osservo l’inarrestabile ticchettio delle lancette che avanzano verso l’una.
La maggior parte della gente non vede l’ora di staccare dal lavoro, ma per me non è così. Io ho sempre il terrore di finire il turno.
Non appena anche l’ultimo utente ha lasciato la biblioteca, Jim chiude a chiave le porte esterne e rimane in attesa tintinnando le chiavi. Quando gli dico che ho delle cose da finire, ci rimane male e torna a rintanarsi in ufficio.
Mi sento in colpa perché so che, finché l’edificio non è vuoto, lui non può rincasare dalla moglie costretta sulla sedia a rotelle, con la quale è sposato da quarant’anni.
Ma oggi è uno di quei giorni in cui non trovo la forza per andarmene. Ho bisogno di prepararmi al rientro a casa.
Comincio avviando l’aggiornamento del software del sistema bibliotecario e nel frattempo affronto la pila dei libri riconsegnati in giornata, riponendoli sugli scaffali.
Paula, la mia assistente, viene solo il mercoledì, quando rimaniamo aperti tutto il giorno. Nelle mezze giornate, sono sola. La cosa non mi pesa, mi piace variare e trovo che le mansioni più banali – come sistemare i libri restituiti – risveglino i ricordi felici di quando lavoravo in biblioteca come volontaria e la vita era semplice e sicura.
All’epoca i libri mi aiutarono a riprendermi e ancora adesso non mi sento mai felice come quando mi circondano. A volte vorrei piantare le tende in ufficio, per non dover più tornare a casa.
Carico il carrello dei libri restituiti e lo spingo verso gli scaffali della parete in fondo: la sezione dei gialli. Forse il genere più richiesto della biblioteca.
I nostri utenti adorano le belle storie di mistero, da leggere tutto d’un fiato. Sembrano affascinati da quei racconti terribili o eventi spaventosi, tanto verosimili da poter accadere nelle vite ordinarie di ciascuno di loro. Naturalmente si tratta di paure senza rischi: si può chiudere il libro in qualsiasi momento e tenere le emozioni sotto stretto controllo.
Quando ero più giovane, adoravo i gialli per la stessa identica ragione. La scelta delle mie letture serali per conciliare il sonno cadeva spesso su un classico di Agatha Christie o un agghiacciante mistero di Ruth Rendell.
Ormai non tocco un libro del genere da sedici anni.
Leggere storie di personalità ingannevoli, degli strati oscuri della società e di personaggi subdoli che si presentano in un modo, ma ben presto si rivelano tutt’altro… mi provoca un disagio inquietante che può durare anche giorni.
Dopo aver riposto i libri in consegna e verificato l’esito dell’aggiornamento, inserisco nel sistema i nuovi titoli arrivati a metà mattina.
Abbiamo una copia del nuovo romanzo di Jeffery Deaver e due copie per ciascuno dei recenti bestseller di Martina Cole e Val McDermid. Tutti già prenotati da settimane. A essere precisi, una delle due copie di Martina Cole è per la moglie di Jim. Spero le sarà di magra consolazione, quando il marito tornerà a casa tardi anche stasera, grazie a moi.
Il nostro paese conta svariati avidi lettori che ancora oggi faticano a far quadrare i conti, nonostante la miniera sia ormai chiusa da tempo. Non si sono mai ripresi completamente e mai accadrà. In particolare i più anziani. Un tempo erano validi collaboratori della rete di distribuzione carbonifera su scala nazionale e ora, be’, arrivano a malapena a fine mese con una pensione minima.
Non possono certo permettersi di spendere e spandere per le ultime uscite dei loro autori preferiti.
Il mio compito successivo è quello di inviare e-mail, messaggi di testo o in alcuni casi, per gli utenti più anziani e meno tecnologici, fare qualche telefonata per avvisare i lettori che i libri tanto attesi sono finalmente disponibili al prestito.
Domani faranno il loro ingresso in biblioteca a passo deciso, con il viso radioso e il sorriso trepidante, e per qualche ora dimenticheranno tutti i loro problemi.
E quando torneranno a consegnare i volumi, intratterremo lunghe conversazioni su ciò che pensano della trama, dell’ambientazione, dei personaggi. È uno degli aspetti salienti del mio lavoro, nonché una funzione di massima importanza della nostra biblioteca.
Il volto di Jim si illumina non appena gli porgo il libro.
«Questo aiuterà la mia Jan a sopportare il dolore più di qualunque medicina». Accarezza la copertina del romanzo con commozione genuina. «Le sarà di grande conforto. Grazie, cara».
Sorrido e avverto una forte determinazione. Proprio per questa ragione non possiamo permettere che chiudano la biblioteca.
Nell’istante stesso in cui lascio l’edificio, i pensieri positivi mi abbandonano e rimango intrappolata nel solito labirinto senza uscita: controllare tutto senza sosta.
Ogni singolo giorno, solo il cielo sa da quanti anni ormai, mi riprometto di smetterla. Ma una volta all’aperto, anche in mezzo a tanta gente, la mia reazione è automatica.
Sembra che io non possa farci proprio niente.
Mi guardo alle spalle ogni trenta secondi, scruto le auto in transito per accertarmi che non continuino a passarmi accanto. Non ascolto mai musica mentre cammino; non potrei proprio. Devo mantenere la piena consapevolezza dei passi che mi giungono alle spalle. Attraverso sempre la strada se trovo cespugli o alberi lungo il tragitto e mi tengo alla larga dai vicoli bui.
Anni fa Gaynor Jackson, la mia terapista, mi avvertì: «Questo atteggiamento ossessivo ti porterà all’esaurimento, Rose. Devi smetterla».
Ma ancora oggi, dopo tanto tempo, è l’unico modo per mantenere un vago controllo della situazione.
Uno dei motivi per i quali ho sospeso la terapia è che non sopportavo più l’ideologia utopica che Gaynor mi propinava come un disco rotto.
Non faceva che ripetere le solite frasi fatte: «Puoi imparare a controllare la paura» e «Devi sforzarti di vivere in uno stato di consapevolezza rilassata». Lei credeva in quei consigli, credeva davvero che funzionassero e forse sarebbe andata così. Se solo fosse stato facile come a parole.
Gaynor aveva le migliori intenzioni, ne sono certa. Ma i suoi consigli venivano dai libri. Era evidente dalla sua indole solare e dall’espressione naif che assumeva, quando io cercavo di esprimere il mio terrore, che non aveva mai provato un briciolo di paura in vita sua.
Non era mai rimasta a letto sveglia nelle notti d’estate, a versare litri di sudore in una stanza soffocante, per la paura di aprire anche il minimo spiraglio che permettesse a qualche malintenzionato di arrampicarsi sulla grondaia e introdursi in casa.
Non era mai corsa in bagno in preda alla nausea per aver sentito un rumore in giardino all’imbrunire e perché aveva il terrore di sbirciare fuori dalle tende.
Non era colpa sua, naturalmente. Ho capito un sacco di tempo fa che se uno non ha provato quel terrore puro sulla propria pelle, non capirà mai come possa debilitarti nel profondo.
O come la tua vita ordinaria e sicura possa scomparire in un battito di ciglia.