Capitolo sei
Rose
Oggi
Entro nella piccola cooperativa locale dove faccio la spesa di solito.
Ci sono due grossi supermercati a circa cinque chilometri dal paese e so benissimo che l’offerta è più ampia e i prezzi migliori, ma qui mi sento molto più a mio agio.
Conosco tutte le cassiere, i commessi e perfino il direttore del negozio. Posso guardarmi attorno con calma e addirittura rilassarmi un po’, se mai ci riuscirò in un luogo pubblico.
Per me il cibo è importante, lo è sempre stato. È un compagno fidato, l’amico che non chiede nulla in cambio.
Tutte le mattine, quando mi sveglio, allontano i pensieri gravosi e spiacevoli che mi girano per la testa e li sostituisco con immagini di cibo. Cosa mangerò a colazione, cosa mi porterò al lavoro per pranzo e, naturalmente, l’evento principale della giornata: cosa mi preparerò per cena.
Comincio ogni nuovo giorno con la promessa di migliorare, ripetendo a me stessa che sono in grado di interrompere questa routine alimentare distruttiva. Ma qualcosa dentro di me si è spezzato e non faccio che deludermi… Quando scende la sera, la speranza mattutina chiude il cerchio ritornando all’autodisprezzo.
L’armadio doppio della mia camera da letto è pieno zeppo di vecchi vestiti che non indosso più. Quelli che mi calzano in maniera decente si contano sulle dita di una mano: un paio di jeans, un paio di pantaloni neri per il lavoro, una camicetta e due cardigan colorati, utili a dissimulare la moltitudine di difetti che mi salta subito all’occhio quando mi guardo allo specchio.
Dovrei vendere la roba vecchia su eBay e usare il ricavato per comprare qualcosa di nuovo e di buona qualità che mi stia bene. Se solo riuscissi a prendere un paio di chili nei punti giusti, avrei decine di combinazioni da sfruttare tra gli indumenti che ora mi cadono troppo larghi sulle spalle ossute o sui fianchi scheletrici.
Un sacco di donne farebbe a cambio con il mio fisico, lo so. Ma solo perché non conosce tutta la storia. Io non sto bene, non sono magra in senso attraente. Sono rinsecchita, malnutrita e affamata.
Per gran parte del tempo, ho una fame da morire.
Regolarmente, una vocina interiore mi incita a reagire al circolo vizioso distruttivo nel quale, a livello conscio, mi rendo conto di essere intrappolata. Ho tentato più volte di elaborare un piano, ma tutte le diete all’ultima moda sulle riviste femminili… sembrano alimentare la mia paura anziché placarla.
Così la settimana scorsa ho fatto qualche ricerca online su come mangiare bene e ho trovato la soluzione adatta a me. In pratica, consiste nel consumare tre pasti ponderati al giorno, eliminare gli snack a base di zuccheri e compiere scelte più sane in generale. Scritto nero su bianco sembra semplice.
Eppure, mentre prendevo nota dei piatti suggeriti, sapevo già che il terrore di ingrassare avrebbe battuto quasi di sicuro la possibilità di adottare un’alimentazione normale.
Per me la questione è sempre stata che devo mangiare tutto. Devo farlo per forza, per riempire i vuoti del nulla, i buchi che mi attraversano come se fossi una fetta di formaggio svizzero. L’unica cosa che sono in grado di controllare è ciò che succede dopo aver mangiato.
Quando ebbe inizio il mio “problema con il cibo” – così lo definì papà, per evitare lo stigma della denominazione medica ufficiale, e tale rimase – mancavano ancora anni prima che i vestiti cominciassero a starmi larghi. Ma quando iniziai anche a perdere peso, non ci fu modo di smettere.
Infilo la mano in borsa e tiro fuori la lista scribacchiata della spesa. Mi sono convinta a compilarla ieri, mentre ero seduta alla scrivania con il mio panino. I miei occhi hanno cominciato a guizzare dalla farcitura di pollo e insalata al pacchetto di patatine al gusto cipolle e formaggio, fino alla piccola banana che mi ero preparata la mattina, e ho avuto un vero e proprio attacco di panico.
Se avessi continuato a mangiare così, mi sarei gonfiata, sarei ingrassata di nuovo.
Quelle parole, colate dalle sue labbra tese e crudeli, mentre mi afferrava per i capelli e mi strattonava la testa all’indietro: schifosa… vigliacca… obesa… ripugnante…
Ieri mi rimbalzavano senza sosta nella testa come palline da ping pong e ho provato la necessità impellente di tentare per l’ennesima volta a riprendere in mano la situazione.
Frequentare la palestra comunale nella vicina Hucknall e mescolarmi agli sconosciuti mi è sembrato fuori questione, così come fare lunghe passeggiate da sola nei campi attorno al paese. Troppi nascondigli adatti a chiunque abbia cattive intenzioni. Ma mi è parso altrettanto ovvio che se non avessi fatto qualcosa, sarei rimasta così, intrappolata in quel circolo vizioso e pericoloso.
Così, eccomi con la mia lista di idee cariche di ottimismo per preparare pasti nutrienti e sazianti, pronta a perlustrare le corsie armata di cestino di metallo.
Prima di raggiungere il reparto verdure scambio qualche convenevole con una persona del paese e un paio di commesse. Nessuna domanda inquisitoria, per fortuna, solo osservazioni sul tempo e sull’ordine del giorno dell’imminente incontro del comitato comunale. Cose che posso reggere.
Poso nel cestino un cespo di lattuga romana, due pomodori e un cetriolo. Aggiungo una confezione di uova e prendo dal frigorifero del salmone già cotto, condito con una salsina piccante allo zenzero. Al posto delle solite bibite gassate, agguanto una bottiglia d’acqua da due litri.
Svoltando verso la corsia successiva, osservo la spesa nel mio cestino e non riesco a vedere niente di fresco e salutare. Solo cibi scialbi, insipidi e tutt’altro che invitanti.
Quanto vorrei che il cibo cessasse di avere un ruolo così determinante nella mia vita per essere io a controllarlo, anziché il contrario, ma al solo pensiero di eliminare i miei piatti preferiti mi piange il cuore.
Come riuscirò a riempire le interminabili serate, mangiando soltanto foglie e un bocconcino di pesce? Io sono abituata a quelle che definisco “cene senza fine”. Consistono in un piatto di lasagne già pronte, oppure di spaghetti al ragù, accompagnati da una fetta o due di pane all’aglio e seguiti da una bella porzione di torta con la panna. Il tutto innaffiato da una buona bottiglia di Sauvignon Blanc fresco, di cui ho già bevuto un bicchiere appena rientrata dal lavoro, dopo aver chiuso a chiave tutte le porte. A quel punto faccio un “salto di sopra”, come lo chiamo io.
Poi scendo di nuovo e mi preparo un caffè con qualche biscotto al cioccolato o cracker con il formaggio.
Per finire mi concedo un paio di Baileys con ghiaccio e, dopo un secondo giretto al piano di sopra, in genere mi addormento davanti a una serie di Netflix.
Mi rendo conto che come serata possa non sembrare un granché, ma è la mia vita. Mi sono adattata alla solitudine costruendomi attorno questa specie di santuario, fondato in buona parte su cibo, bevande e televisione.
È il mio modo per dimenticare tutto il resto: ciò che è accaduto in passato e il futuro che non potrò mai sperare di avere. A volte, per un brevissimo lasso di tempo, funziona davvero.
«Buongiorno, Rose».
La signorina Carter mi si para di fronte nella corsia numero 2, con un cestino stipato di lettiera per il gatto e svariate lattine di croccantini al tonno.
«Buongiorno». Sorrido.
«La tua spesa sembra molto… salutare». Sbircia nel mio cesto e poi mi scruta, con sguardo sottile. «Come ti senti in questi giorni, Rose?».
Tento di smorzare la vampata di irritazione che mi si accende nel petto. Quelle poche parole paiono innocenti, ma in realtà sottintendono: “Vedo che hai della lattuga nel cestino… stai forse ricadendo nel problema con il cibo?”.
«Molto bene, grazie, signorina Carter», rispondo con tono volutamente gioviale. «Sto proprio benissimo».
I suoi occhi mi esaminano da capo a piedi, soffermandosi per un paio di secondi sulla cintura dei pantaloni. «È bello sentirtelo dire», replica lei chiaramente poco convinta. «Non diventare matta con quell’insalata, però. Puoi ancora permetterti qualche chilo in più, mia cara».
Uno degli svantaggi di vivere nello stesso paesino dalla mentalità ristretta per tutta la vita è che la gente sembra non afferrare mai che non sei più la ragazzina incapace di un tempo… bensì un’adulta in grado di badare a se stessa, senza alcun bisogno di suggerimenti villani e spesso privi di tatto.
La gente del posto ha la memoria lunghissima. Chiedi a un ex minatore qualsiasi e sarà ben felice di puntare ancora il dito contro gli scabs, nomignolo affibbiato nel 1984 ai “crumiri” che si rifiutavano di scioperare.
Tutti gli abitanti del paese sapevano della mia bulimia, come poteva essere altrimenti? All’epoca, nasconderlo era impossibile. Dopo la morte di Billy, cominciai a perdere circa mezzo chilo ogni due, tre giorni per settimane e sembravo uno zombi, con l’apparato digerente andato in pezzi.
Fu un tentativo plateale, purtroppo fallito, di volatilizzarmi.
Farfuglio un pretesto alla signorina Carter e mi sposto nella corsia successiva. Il manico di plastica del cestino mi scivola nella mano sudata e sento un rivolo di sudore raccogliersi nell’incavo alla base della schiena.
Mi fermo un istante a fissare gli scaffali con sguardo assente e, non appena riesco a mettere a fuoco, vedo ripiani e ripiani stipati di biscotti e dolciumi.
Espiro a fondo e sento le spalle rilassarsi. Finalmente un po’ di conforto.