Capitolo cinquantuno
Rose
Oggi
Sono solo le cinque e mezza del pomeriggio, ma sembra la conclusione di una lunghissima giornata.
Mi sento una specie di zombi, come se la mia mente avesse inserito il pilota automatico per portare a termine le azioni basilari e niente di più. La conversazione con Mike North questa mattina, la visita dei funzionari della contea, la mia bocca imbottita di cibo appena tornata a casa… sembra confondersi tutto nella mia testa. Quasi fosse accaduto moltissimo tempo fa.
Peccato che non sia vero, perché forse all’epoca sarei riuscita ad affrontare meglio i miei problemi e a superarli. Chiudo a chiave la porta sul retro e mi fermo in giardino per qualche istante. L’aria fuori è tiepida, ma il cielo è grigio e coperto di nuvole. Non è la serata ideale per stare seduti all’aperto.
Guardo la mia casa. Il mutuo ormai è estinto; la proprietà è mia, ma senza un lavoro non riuscirei a mantenermi. Se chiudesse la biblioteca, non ci sarebbe altro per me nei paraggi, dovrei per forza cercare qualcosa altrove.
Ora come ora, preferisco non pensare agli effetti di una simile eventualità sui miei livelli di ansia.
Volto le spalle alla casa. Oggi avevo l’opportunità di fare una bella impressione sui funzionari della contea e me la sono bruciata. Ma la cosa peggiore è stata la sensazione di panico, di non avere il controllo sulla mia vita. Ha riportato a galla i ricordi peggiori, la paura di ricadere.
Accantono per il momento il pensiero della chiusura della biblioteca. Ho qualcosa di più urgente da risolvere con la massima priorità.
Attraverso il cancelletto della casa accanto, ma lo lascio socchiuso per quando tornerò, dopo aver parlato con Ronnie. Busso alla porta sul retro e cerco di abbassare la maniglia ma, come sospettavo, è chiusa a chiave. Sarà stata Claudia, la badante, prima di andarsene.
Apro con la mia copia della chiave e mi richiudo la porta alle spalle, una volta entrata. In fondo alle scale, mi tolgo le scarpe.
«Sono Rose», annuncio, apprestandomi a salire.
Arrivata sul pianerottolo, indugio, paralizzata dalla vista della stanza-ripostiglio. Mi sembra ancora impossibile che per tutti questi anni la copertina di Billy sia sempre rimasta lì dentro. Nessuno, compresa me, ha mai pensato di cercarla lì.
Sento dei colpi di tosse stizzosa, che mi riportano al presente, e mi dirigo nella direzione opposta al ripostiglio nella speranza di dimenticarmene.
Quando busso alla porta di Ronnie, mi accoglie la sua risposta roca. «Entra pure».
La camera da letto è buia ed emana un odore acre. Claudia ha socchiuso le tende, forse perché la luce esterna era molto più intensa quando lei era qui.
Ronnie è seduto nel suo letto, sostenuto da diversi cuscini.
Noto subito che ha perso molto peso dal ricovero in ospedale. Ha il viso scarno e pallido.
«Ciao, Ronnie», lo saluto, sforzandomi di sorridere. «Prima le cose importanti, ti serve aiuto per andare in bagno?».
Lui scuote il capo. «Claudia se n’è andata appena un’ora fa».
«Bene», dico e mi siedo ai piedi del letto. «Come ti senti?»
«Stanco», risponde lui mogio. «Sono davvero stanco, Rose».
In effetti ha l’aria distrutta, ma mi sorge il dubbio che voglia solo evitare di parlare con me. Gli ho detto senza mezzi termini, prima di andare al lavoro, che volevo fare due chiacchiere…
Dice di non avere fame, ma che gradirebbe una tazza di tè.
Scendo in cucina a mettere il bollitore sul fuoco e osservo dalla finestra stretta lo squallido cortile di cemento, chiedendomi come farò ad affrontare il discorso della copertina di Billy.
Ronnie è stato molto male – e non si è ancora ripreso – perciò è possibile che la sua memoria abbia delle lacune. Forse prima dovrei indurlo a ricordare il passato in termini generali, senza alcuna premura.
Gli porto il tè con un paio di biscotti.
Lui lascia i biscotti sul piatto e sorseggia il tè, scrutandomi oltre il bordo della tazza.
«Nemmeno tu hai una bella cera, Rose». Corruga la fronte e la sua voce crepita come carta stropicciata.
«Sto bene», replico.
«Hai le guance arrossate come una volta. Quando eri malata».
Ignoro l’osservazione.
«Hai preso le tue pillole?»
«Sì», annuisce.
«Mentre attraversavo il cancelletto poco fa, ho ripensato alle feste che facevamo in giardino», dico con leggerezza. «Quando tu e papà vi sbizzarrivate con il barbecue. Ti ricordi?».
Lui beve un altro sorso di tè e gli sfugge una specie di grugnito dal profondo della gola.
«Erano giorni felici. Dove sono spariti quegli anni, Ronnie?»
«Non lo so», sospira. «Ma vorrei tanto che tornassero. Per fare le cose in modo diverso».
Drizzo le orecchie.
«In che senso? Quali cose?».
Mi auguro che il mio tono suoni naturale, ma il cuore comincia a martellarmi nel petto. A volte, quando la gente invecchia e si ammala, decide d’impulso di liberarsi del peso che porta. Forse sto per assistere a uno di quei momenti.
«Prima di tutto non lavorerei così tanto». Ronnie si schiarisce la voce. «I soldi facevano comodo, ci hanno permesso una bella vita, ma vorrei aver trascorso più tempo con Sheila e il piccolo Eric».
«Hai fatto del tuo meglio», commento. «Scommetto che la maggior parte degli uomini del paese prova lo stesso. Avete lavorato tutti sodo giù alla miniera».
«Già. All’epoca non immaginavamo che il governo ci avrebbe fregati, no? Credevamo di tenerci il lavoro per tutta la vita».
Annuisco.
«E poi… io…». Ronnie esita e l’aria intorno a noi sembra caricarsi di elettricità. «Provo un grande rammarico per quello che è accaduto a Billy», conclude con voce appena sussurrata.