Capitolo cinquanta
Rose
Oggi
Come sono riuscita a superare la giornata con la mente così confusa e catapultarmi fuori dalla porta, sinceramente non lo so, ma eccomi sulla strada di casa dopo il lavoro.
Nel primo pomeriggio, quando i funzionari della contea hanno lasciato la biblioteca, sono scoppiata a piangere a dirotto.
Jim, la signora Brewster e la signorina Carter sono accorsi a consolarmi, ma ho rifiutato le loro premure. Non mi sentivo per niente degna della loro compassione.
«Non è colpa tua, tesoro», continuava a ripetere Jim. «Sembri molto tesa; forse la situazione ti ha messa troppo alla prova».
Non ho risposto e ho affondato il viso nel fazzoletto che la signorina Carter mi aveva procurato, dandomi una bella strigliata tra me e me. Sapevo della visita da oltre una settimana ma, avendo la testa da un’altra parte, la mia preparazione al riguardo era stata pari a zero. Anzi, ancora peggio, me n’ero addirittura dimenticata e sapevo, a giudicare dalle loro facce, che lo avevano notato.
Sto accumulando errori su errori, dimentico cose importanti e sbotto con frasi inadeguate senza riflettere sulle conseguenze.
Gli impegni banali di tutti i giorni diventano troppo difficili da affrontare, sommati al resto. Perfino i miei controlli di sicurezza oggi sono poco efficaci.
La mia pancia ha brontolato per l’intera mattina, così forte che un paio di persone ci hanno scherzato sopra. Jim si è offerto di andare a comprarmi un panino, ma non sopporto neppure l’idea di mangiare. A meno che non si tratti del cibo giusto. Nient’altro mi aiuterebbe.
Basta poco, tuttavia, a dissipare la mia nonchalance per l’ambiente attorno a me. Il cuore riprende il suo battito concitato e la bocca mi diventa asciutta come segatura. Affretto il passo, ansiosa di arrivare a casa.
Svoltando l’angolo, scorgo l’insegna rassicurante del supermercato e, senza rendermene conto, i miei piedi deviano in quella direzione.
All’interno, sfreccio lungo le corsie a tempo di record, caricando il cestino di ogni sorta di prodotti. Anziché andare alla cassa, mi accodo alla breve fila del pagamento self-service dove un nuovo addetto, che grazie al cielo non è un maestro dei convenevoli, è di guardia, pronto ad aiutare gli eventuali clienti in difficoltà.
Quindici minuti più tardi, eccomi a casa con i miei due sacchi della spesa.
Chiudo la porta a chiave alle mie spalle, lascio cadere gli acquisti a terra e tiro le tende del salotto. Poi porto la spesa in cucina e abbasso la veneziana, controllando un paio di volte che il chiavistello sulla porta sia a posto.
Mi verso un bicchierone di bibita gasata, mi siedo al tavolo della cucina e avvio il solito rituale che di sicuro mi darà sollievo.
Per prima cosa, mangio tre bignè al cioccolato. La pasta è così leggera che la crema al cioccolato scivola subito in gola senza nemmeno masticare.
Mentre armeggio con la confezione della torta glassata al limone, mi ficco in bocca un paio di biscotti al cioccolato e finalmente sento che la tensione al collo e alle spalle comincia ad allentarsi.
Non mi prendo neanche la briga di usare un piatto; taglio una grossa fetta di torta e verso sopra una cucchiaiata di panna superconcentrata. Mi sono riempita la bocca fin troppo, ma in qualche modo riesco a masticare e gustarmi quel soffice ammasso di bontà che per me è tutto.
Chiudo gli occhi e le mie preoccupazioni – i pensieri orribili che mi affliggono – svaniscono. Non mi interessa più niente, a parte quella meravigliosa sensazione nella mente che annulla tutto il resto.
Nel giro di pochi minuti ho divorato metà barattolo di panna e due terzi di torta. Passo alla grossa vaschetta di gelato al gusto biscotto e cioccolato, che mi congela la lingua e la gola, anestetizzando il dolore, sotterrato dal peso delle calorie.
Dopo aver svuotato la vaschetta, barcollo verso il salotto e mi sdraio sul divano. Chiudo gli occhi e tento di ignorare lo stomaco in subbuglio, concentrandomi sulla confortante sensazione di calore che mi avvolge come una coperta calda.
Mi crogiolo per un po’ in quella strana via di mezzo tra il sonno e la veglia, poi mi costringo a rimettermi seduta. È l’ora.
Salgo al piano superiore, sbottonandomi la camicetta da lavoro lungo le scale per poi lasciarla cadere sull’ultimo gradino. Fuori dalla porta del bagno mi sfilo anche i pantaloni ed entro nella stanza solo con la biancheria intima.
Sollevo il copriwater e mi chino in avanti, poi unisco dito indice e medio e li infilo lentamente in bocca. Premo la lingua verso il basso, aumentando la pressione finché le dita non raggiungono la gola.
Et voilà! Eccola risalire in tutta la sua gloria: la cremosa poltiglia al limone e cioccolato, che aveva abbracciato le mie preoccupazioni, finisce nella tazza insieme a loro.
Sono così sollevata di avere ancora il tocco magico.
Dopo essermi lavata il viso e le mani e risciacquata la bocca in fiamme, vado in camera e mi metto un paio di leggings e una maglietta larga.
Tiro di nuovo lo sciacquone, pulisco il bordo del water e spruzzo un po’ di candeggina all’interno, prima di richiudere il coperchio. Apro la finestra e mi siedo sull’ultimo gradino delle scale, in attesa che l’aria circoli per qualche minuto.
Non lascio mai le finestre aperte in casa senza stare di guardia. È una delle mie misure di sicurezza.
La richiudo e torno in cucina a pulire il disastro che ho lasciato in giro. Con la mano raduno in un mucchietto le briciole di torta al limone sparse sul ripiano, poi lo deposito nella pattumiera a pedale, insieme a tutti gli involucri strappati e al barattolo di panna quasi vuoto.
Mentre strofino via gli aloni di crema dal ripiano, mi assale la nausea. Bevo un po’ d’acqua per placare il bruciore acido in gola, ma peggiora solo le cose.
Con delicatezza mi sfioro le labbra e torno con la memoria al periodo peggiore della mia bulimia. All’epoca avevo le labbra ricoperte di vesciche e taglietti agli angoli della bocca. Il bruciore in gola era una costante e la pelle uno sfogo di brufoli.
Ma io notavo solo che il mio orribile corpo grasso era diventato un tantino più accettabile e che l’incessante tortura della mente si era placata. Durava solo un breve lasso di tempo, poi mi riassaliva il bisogno di epurarmi.
Non voglio ricadere in quella situazione. Mi prometto in silenzio che non succederà.
Non posso continuare a posticipare quello che devo fare. Metto in borsa il necessario, prendo le mie chiavi e la chiave della casa accanto e mi dirigo verso la porta sul retro.
È giunto il momento di parlare con Ronnie.