Capitolo cinquantanove
Rose
Oggi
Come prevedibile, chiudo occhio a malapena e mi risveglio in una giornata uggiosa. Rivoli di pioggia scorrono come lacrime lungo la finestra della mia stanza.
Sono esausta e terrorizzata al pensiero di andare al lavoro.
Ieri sera, quando sono uscita di casa per imbucare la lettera, per strada c’era un silenzio inquietante. A parte un autobus che percorreva lento la via principale, con l’interno illuminato e qualche sparuto passeggero, non si vedeva traffico né anima viva.
Sono uscita dalla porta principale, controllando due volte di averla chiusa bene a chiave. Appena mi sono voltata e ho radunato il coraggio necessario a raggiungere la cassetta delle lettere in fondo alla via, i miei occhi hanno colto un movimento rapido.
Ho girato la testa di scatto, perlustrando la strada da cima a fondo.
Ecco, intravedevo qualcosa… uno spostamento nell’oscurità, una sagoma indistinta più che una persona. Ho sbattuto le palpebre e l’ombra è scomparsa, tutto appariva immobile. Che fosse stata solo la mia immaginazione iperattiva?
Ho guardato la lettera nella mia mano e ho esitato. Avrei potuto spedirla la mattina seguente andando al lavoro. Sarebbe partita comunque lo stesso giorno. Eppure…
C’era un che di definitivo nell’atto di imbucarla che mi ha spinta ad avanzare passo dopo passo, nonostante l’impressione di guadare nella melassa.
Ho infilato la busta nello stretto spiraglio della cassetta, che alla luce del lampione brillava di un rosso pericoloso. Dopo essermi guardata attorno e accertata che non ci fosse nessuno nei paraggi, sono tornata a casa di corsa. Letteralmente.
Chiave in mano, ho aperto la porta d’ingresso, l’ho chiusa sbattendola forte, ho girato la chiave e tirato il chiavistello.
Poi sono rimasta immobile, la schiena contro il freddo rivestimento in PVC della porta, a ridere di me stessa. Sarebbe mai giunto il momento in cui l’avrei piantata con quelle assurdità per vivere la mia vita in pace?
Alla fine, fuori non c’era nessuno che mi osservava di nascosto e nessun’ombra minacciosa si era dileguata tra i campi.
Eppure oggi vorrei tanto rimanere a casa e recuperare il sonno perduto in una stanza illuminata dal bagliore rassicurante del giorno. Purtroppo non ho scelta. La mia routine è la mia ancora di salvezza.
Mi faccio la doccia, mi asciugo i capelli e, mentre mi vesto, mangio una banana per colazione.
Al pensiero di dover passare da Ronnie a controllare che sia tutto a posto mi si stringe lo stomaco. Recupero tutto quello che mi serve per il lavoro, poi chiudo bene a chiave, per avviarmi verso la biblioteca direttamente da casa sua.
Due minuti dopo, salgo le scale della casa accanto.
«Sono io», annuncio.
Trovo Ronnie fuori dal letto, seduto a terra con aria frastornata. È pallido come un lenzuolo e ha la testa china da una parte.
«Ronnie!». Gli corro incontro.
«Sto bene», farfuglia lui, lasciandosi aiutare. «Dovevo andare in bagno e… ci sono riuscito, ma poi mi è venuto un capogiro mentre tornavo a letto. Le mie stupide gambe non hanno retto».
«Sei svenuto?».
Scuote il capo. «Solo caduto. Ora sto bene, Rose, vai pure al lavoro».
Eccolo lì, a preoccuparsi per gli altri come sempre. Ho un bisogno disperato di sapere che è lui il vero Ronnie. Dev’esserlo per forza o potrei non riuscire mai più a fidarmi di un essere umano.
Sono proprio felice di aver imbucato la lettera ieri sera. L’unico modo per andare avanti è ottenere delle risposte da Gareth Farnham.
Prego che lui sia pronto, dopo sedici anni di riflessione, ad affrontare finalmente la verità.
In biblioteca, Jim mi gira attorno con una certa agitazione.
«Come ti senti oggi, tesoro? Non devi dare troppo peso alla visita di quegli idioti di ieri, sai. La decisione di chiudere la biblioteca non spetta solo a loro».
«Lo so, Jim, ma quei cosiddetti gruppi di consultazione giudicano sulla base dei suggerimenti ricevuti. Mi sembra di aver sprecato un’occasione fondamentale per dimostrare quanto sia importante la biblioteca per il nostro paese».
«Hanno lasciato mio nonno senza lavoro chiudendo le acciaierie nel nord del Paese, i problemi alla miniera hanno ucciso mio fratello e alla fine hanno chiuso anche quella». Jim serra la mascella. «Non lo faranno anche alla nostra maledetta biblioteca, Rose».
Quanto vorrei avere un briciolo della sua sicurezza. Le parole di Jim trasudano determinazione, ma non salveranno questo posto. Nell’ultimo paio di anni, sono state chiuse almeno cinque biblioteche nella nostra contea e di certo non sono mancate le proteste locali. È il bilancio a regnare sovrano e quelli sono andati avanti per la loro strada come niente fosse.
«Vado a spremermi le meningi», annuncia Jim con un sorriso. «La gente di qui mi sottovaluta spesso, Rose, ma non dovrebbe. Sai come si dice… Acqua cheta rompe i ponti».