Capitolo otto
Rose
Oggi
Afferro il cellulare dalla borsa e chiamo subito l’ambulanza, pregando che non sia troppo tardi.
Salgo di nuovo e sistemo un asciugamano ripiegato sotto la testa di Ronnie, poi tiro lo sciacquone per eliminare il contenuto raccapricciante della tazza, infine scavalco le sue gambe distese sul pavimento di linoleum usurato e pieno di crepe per aprire la finestrella satinata accanto alla vasca.
«L’ambulanza sta arrivando, Ronnie», lo rassicuro. «Sei scivolato a terra?».
Lui non risponde, ma strabuzza gli occhi sempre di più e deglutisce a stento, la bocca distorta. Mi passa per la mente che possa avere avuto un leggero ictus e mi auguro di sbagliarmi.
«Forse sei solo debole per l’indisposizione dei giorni scorsi, Ronnie», cerco di confortarlo. «Sei svenuto?».
Il suo sussurro è così lieve che lo sento a malapena. «No».
Muove le labbra come per aggiungere qualcosa, ma non ci riesce. Lo sistemo in una posizione il più comoda possibile e scendo a controllare se arriva l’ambulanza.
Nel giro di pochi minuti, risalgo con due paramedici.
«Come si chiama il paziente?», chiede il più alto dei due, mentre marciamo verso il piano superiore.
«Ronnie».
«È cosciente?»
«Sì, ma non riesce a muoversi e ha difficoltà anche a parlare», spiego.
«Com’è successo?»
«Non so. L’ho trovato a terra quando sono passata a portargli la spesa. Negli ultimi giorni ha avuto lo stomaco sottosopra».
«Ha idea di quanto sia rimasto a terra prima che lei lo trovasse?»
«Purtroppo no, mi spiace». Mi sento inutile, come se in qualche modo dovessi riuscire a fornire maggiori dettagli.
Uno dei paramedici rimane sul pianerottolo perché il bagno è troppo piccolo per soccorrere Ronnie in due. Indugio accanto alle scale per un po’, ma mi sento d’intralcio e torno di sotto.
Per la sua età Ronnie se la cava bene a tenere la casa in ordine, ma ora che me ne sto seduta nella sua cucina, anziché entrare e uscire al volo come sempre, noto i segni della trascuratezza. Il pavimento ha un bisogno disperato di una spazzata e il piano da lavoro è ricoperto di macchie opache e briciole stantie. È chiaro che manca da tempo una pulizia approfondita.
Mi sento in colpa. Avrei dovuto dargli una mano a tenere tutto a posto molto prima.
I Turner si sono prodigati per noi dopo la scomparsa di Billy e a me, mi vergogno a dirlo, non è mai passato per la mente di fare visita a Ronnie durante la settimana per aiutarlo nelle faccende di casa.
Di recente ho visto sul «Nottingham Post» la pubblicità di un paio di quartieri residenziali per pensionati, in costruzione appena fuori dalla città. Spuntano come funghi: alloggi eleganti, appositamente concepiti, integrati di tutti i servizi utili a semplificare la vita alla popolazione anziana-ma-ancora-in-gamba.
Vedrei bene Ronnie in un contesto simile, ma non sarò certo io a suggerirglielo. Gli anziani del paese tendono a rimanerci fino alla fine dei loro giorni, come se avessero nel sangue la polvere della miniera. Anche se i recenti complessi abitativi di Jasmine Gardens hanno attirato nuovi residenti, in paese aleggia la sensazione implicita che loro non siano abitanti del villaggio “legittimi”. Non come Ronnie o, suppongo, come me.
«Potrebbe portarci un bicchiere d’acqua, per favore?», chiede uno dei paramedici dal primo piano.
Apro diverse ante in cerca dei bicchieri e devo trattenerne il contenuto con la mano, tanto sono stipate di cianfrusaglie. Finalmente riesco a salire con l’acqua.
Porgo il bicchiere. «Come sta?»
«È messo maluccio, poveretto. Disidratato. Vive da solo? Nessun familiare vicino?»
«La moglie è morta circa cinque anni fa e ora vive solo. Ha un figlio, Eric, ma sono passati almeno dieci mesi dall’ultima volta che è venuto a trovarlo. Vive con la famiglia in Australia». Alzo le spalle in segno di disapprovazione. «Ma io abito nella casa accanto e ci conosciamo bene. Passo qui tutti i giorni, anche solo per controllare al volo che stia bene e se gli serva qualcosa».
«Dovrebbero esserci più persone come lei», commenta l’uomo desolato. «Non costa poi molto dare un’occhiata ai vicini anziani, no?».
La testa dell’altro paramedico fa capolino dalla porta del bagno.
«Una fortuna che lei sia passata a trovarlo proprio oggi», commenta sottovoce, guardando il collega. «È un virus tremendo. Dobbiamo portarlo via, ma è troppo debole per camminare».
Scendo ad aspettare mentre loro trasportano il povero Ronnie sulla barella. È pallido come un lenzuolo e sembra invecchiato di dieci anni da ieri.
«Non preoccuparti, Ronnie…». Gli stringo la mano con delicatezza e sento la sua pelle fredda e sottile come carta premere contro il mio palmo. «Penserò io a legare Tina e darle da mangiare. Controllerò che qui a casa sia tutto a posto».
Lui apre la bocca per rispondere, ma il fiato gli si blocca in gola e comincia a tossire.
«Stai calmo, Ronnie», interviene uno dei paramedici. «Respira e basta, piano piano. Non cercare di parlare».
Prima di ripartire, attendono che smetta di tossire. Ma Ronnie continua a mormorare.
«N… Non… Io…».
«Cosa c’è, Ronnie?». Mi chino verso di lui. «Cosa vuoi dirmi?»
«Non andare…». Tossisce, la voce roca e quasi sconnessa.
«Credo voglia che resti con lui», spiego. «È così, Ronnie? Non vuoi che me ne vada?».
Lui ritenta, finché finalmente afferro le sue parole. Capisco cosa cercava di dirmi.
«Non… andare… di sopra», sussurra.