Capitolo ventiquattro
Rose
Oggi
Il pensiero di quello che potrei trovare rovistando a casa di Ronnie mi terrorizza, ma l’istinto mi dice che non è il momento di tergiversare.
Grazie a Dio, lui è ancora in ospedale. Potrebbe essere la mia unica occasione.
Deglutisco un accenno di nausea e alzo la cornetta del telefono per chiamare il reparto dove è in cura il mio vicino.
«Io… chiamavo per chiedere come sta Ronnie Turner», farfuglio quando rispondono. «E volevo sapere se lo dimetterete presto. Sa, mi sto occupando di casa sua».
L’infermiera copre il ricevitore per un istante e la sento parlare con qualcuno. Tutti i suoni, le voci, mi giungono attutiti. Immagino Ronnie disteso nel suo letto d’ospedale. Sarà preoccupato di quello che potrei scoprire in sua assenza?
«Pronto?», dice la donna spazientita e mi accorgo che stava già parlando.
«Scusi», rispondo. «Ci sono».
«Sta bene, non sappiamo ancora quando lo dimetteremo, ma non manca molto».
La ringrazio e chiudo la telefonata.
In tutta franchezza, non mi preoccupa più come stia Ronnie. Sono felice che sia fuori dai piedi così posso indagare ancora un po’. Ho bisogno di raccogliere più prove possibili, prima di andare alla polizia.
Un quarto d’ora dopo, eccomi di nuovo nella casa accanto.
Salgo le scale, stringendo la mano sudata al corrimano perché non mi fido del mio equilibrio.
L’aria che mi circonda sembra appesantita dalla mia stessa ansia, eppure so che qui non è cambiato niente. Quello che ho scoperto stamattina nel ripostiglio di Ronnie c’è sempre stato.
Tutte le volte che mi sono fermata a chiacchierare con Sheila in cucina.
Tutte le volte che mamma e papà sono passati a ringraziarli per il loro aiuto.
Ogni volta che Ronnie mi ha accompagnata al cimitero.
La copertina di Billy è sempre stata sepolta qui, proprio come mio fratello, nella terra fredda e dura.
Sento il cuore battermi in gola. Nel silenzio che rimbomba, giuro di sentire il suo martellare incessante. Non capisco se voglia mettermi in guardia o incitarmi a continuare, ma non ho scelta.
Lo devo a mamma e papà.
Lo devo al mio povero fratellino morto.
In maniera sistematica svuoto ogni singola scatola da cima a fondo, poi rimetto a posto il contenuto e passo alla successiva.
Non so cosa sto cercando, ma non mi fermo.
Ho a disposizione tre ore prima di andare al lavoro, ma poiché l’ospedale non sa ancora quando dimetteranno Ronnie, non intendo darmi malata. Dovrebbero rimanermi ancora un paio di giorni comodi per completare l’opera.
Arrivo a spulciare circa un terzo degli scatoloni prima di rialzarmi con un gemito e stirare la schiena premendo le mani alla base. I vestiti mi staranno anche larghi, ma sono proprio rigida e fuori forma. La mia schiena sta gridando di dolore.
Mi inarco e oscillo avanti e indietro diverse volte prima di passare alla camera da letto.
Ogni cosa che noto all’interno mi si presenta sotto un’altra sgradita prospettiva: un paio di scarponi pesanti e malandati accanto all’armadio in legno di quercia; un bastone da passeggio con un lupo d’ottone scolpito sul manico; un grosso fermacarte di vetro sul comodino accanto al letto.
Oggetti banalissimi a meno che non siano associati a un mostro. Un assassino.
Ronnie Turner lo è davvero?
Ignoro la sensazione che mi opprime il petto e proseguo. Controllo nei cassetti, rovisto negli armadi, guardo sotto il materasso. Apro un vecchio baule di legno impolverato ai piedi del letto e non trovo altro che lenzuola di cotone pettinato, a righine bianche e rosa, come quelle che usava mia nonna quando ero piccola.
Presto attenzione a rimettere tutto in ordine come l’ho trovato.
Ma finisce lì.
Non trovo nient’altro.