Capitolo sette
Rose
Oggi
Esco dal supermercato e, carica di sacchetti di plastica pieni fino all’orlo, attraverso il paese effettuando i consueti controlli di rito.
Casa mia dista solo un paio di minuti a piedi, ma mi sembra di metterci una vita ad arrivare.
Mentre il cuore mi batte sempre più in fretta, malgrado sia quasi certa che non ci sia nessuno da temere intorno a me, fisso lo sguardo sul marciapiede e conto i passi. La sensazione di disagio si allevia quando la mia casetta in mattoni a schiera si affaccia alla vista. La familiarità mi fa stare bene. La desidero con ardore. Ne ho bisogno.
Incontrare la signorina Carter e subire i suoi commenti sulle mie scelte alimentari ha scoperchiato un vaso di Pandora che non ero pronta ad affrontare.
Talvolta riesco a erigere per tempo le mie difese, se so che per qualche motivo verrà menzionato il passato. Per esempio, se un utente in biblioteca cita i fatti di tanto tempo fa e mi chiede se va tutto bene, riesco a gestire la situazione senza problemi.
Ma quando non me l’aspetto, come oggi al supermercato, basta un paio di commenti incauti a farmi mancare il terreno sotto i piedi e posso impiegare giorni per ristabilirmi.
Osservo i sacchetti della spesa ricolmi, i cui manici incidono la pelle delicata dei miei palmi.
Sono scappata dalla signorina Carter e, non appena ho raggiunto la cassa, avevo già rimandato a data da destinarsi tutti i buoni propositi di dieta salutare, infatti mi sono ritrovata tra le mani due cestini di metallo zeppi di cibi consolatori, un balsamo potente contro i ricordi dolorosi che la donna aveva inavvertitamente scomodato.
Affretto il passo verso il numero civico 13, quello di casa mia, ma prima di entrare e chiudermi dentro a chiave, devo consegnare la spesa a Ronnie.
Spingo il cancelletto di legno del numero 11. Mi guardo alle spalle per accertarmi di essere sola e percorro svelta il viale tra le due case, che conduce dietro la proprietà di Ronnie.
Due aloni umidi cominciano a irritare la pelle delicata sotto le ascelle. Riprendo fiato e mi affretto verso il retro dell’abitazione.
Sotto le suole piatte e consumate delle scarpe, sento le lastre di cemento del vialetto, rotte e aguzze.
Abbasso gli occhi sulle bordure di centonchio che traboccano ai lati del sentiero. I cuscini verdi e ricchi di foglie sono punteggiati da graziosi e minuscoli fiorellini a forma di stella dall’aria innocente che, quatti quatti, soffocheranno qualunque altro segno di vita.
Quando è in casa, Ronnie tiene aperta la porta sul retro, perciò mi limito a bussare alla finestra della cucina ed entro subito.
Ho provato a metterlo in guardia contro ladri e malviventi, ma non mi sta a sentire. Continua a credere che sia come negli anni Ottanta, quando lui e gli altri inquilini delle villette a schiera vivevano e lavoravano sulla base della reciproca fiducia comunitaria che tutti davano per scontata.
Ora in paese ci sono tanti nuovi residenti quanti abitanti originari. Forestieri. Ci si imbatte di continuo, e a ogni angolo, in facce mai viste.
Un pericolo che conosco fin troppo bene.
Di solito, nei giorni in cui faccio un salto da Ronnie, lo trovo sempre indaffarato in cucina con quel suo modo incerto e distratto tipico degli ultimi tempi. Altre volte gli piace sedersi al tavolo e concentrarsi su parole crociate criptiche che ormai fatica a completare.
Ma oggi non c’è.
Poso il sacchetto con la spesa sul ripiano della cucina, lasciando i miei e la borsa accanto alla porta per quando uscirò.
«C’è nessuno?», chiamo, attraversando la stanza. Ronnie non ama accomodarsi in salotto prima dei programmi televisivi serali, perciò suppongo sia in bagno al primo piano.
Indugio ai piedi delle scale. Vengo a far visita a Ronnie e Sheila da sempre, eppure mi fa ancora uno strano effetto trovarmi nell’immagine riflessa della mia stessa casa, che tuttavia mi appare così diversa.
Allungo il collo verso la porta che conduce in salotto.
I mobili sono tutti datati, ma di una qualità che ha retto bene negli anni. Un tappeto Axminster a motivi blu e marroni percorre l’ingresso fino al salotto, il cui spazio è riempito da una credenza in noce e un mobile per il televisore. Il divano Chesterfield rosso scuro a tre posti e la poltrona abbinata con lo schienale alto appaiono ancora più imponenti nella stanza angusta e l’unica finestra, rivestita di tendine di merletto, è incorniciata da pesanti drappeggi di velluto di una tinta simile al divano.
L’ambiente è cupo e spento, ma Ronnie e Sheila non erano grandi fan dell’arredo leggero e minimalista. Appartenevano a una generazione che preferiva la confusione: più gli oggetti erano elaborati e meglio era. Avevano scelto con amore quei mobili di qualità, acquistandoli con l’ottima rendita guadagnata da Ronnie in miniera, dove era noto come il Superiore, una sorta di caposquadra dei sotterranei.
Quando papà – l’allora giovane Raymond Tinsley – cominciò a lavorare alla miniera di carbone di Newstead, dopo aver lasciato la scuola, Ronnie godeva già di una posizione consolidata e rispettata nella scala gerarchica della miniera e, poiché conosceva bene la nostra famiglia, prese papà sotto la sua ala protettiva. Le cose funzionavano così negli anni in cui ci si prendeva ancora cura gli uni degli altri.
Non c’è traccia di Ronnie nemmeno in salotto.
Comincio a salire le scale, con un senso di presagio che mi opprime il petto.
«Ronnie?», chiamo.
Sento grattare a terra e, mentre mi avvicino al pianerottolo, un gemito fiacco. Arrivata in cima, busso titubante alla porta del bagno, con il cuore che batte forte.
Spalanco la porta e mi saltano subito all’occhio i piedi scalzi di Ronnie e le caviglie bianche e ossute, allora entro nel minuscolo gabinetto e lo trovo riverso a terra, il volto tirato dal dolore.
D’istinto, mi copro naso e bocca con la mano per il tanfo di vomito e non solo. Lui mi guarda, strabuzzando gli occhi, e mormora qualcosa. Esco dal bagno per riprendere fiato.
«Stai tranquillo, Ronnie, ora chiamo l’ambulanza».
Poi mi precipito di sotto a prendere il cellulare.