Capitolo uno
Rose
Oggi
Passo il lettore ottico sui due romanzi di Catherine Cookson in edizione a grandi caratteri che la signora Groves ha impiegato una buona trentina di minuti a scegliere, e attendo il segnale sonoro. Verificata l’avvenuta registrazione nel sistema bibliotecario, glieli porgo attraverso il bancone.
«Le andrebbe di firmare la nostra petizione, signora Groves?», domando.
L’anziana infila i libri nella borsa della spesa e sbircia l’elenco di firme che le indico. «Una petizione per cosa, cara?»
«Per salvare la biblioteca», spiego. «L’autorità locale ha pubblicato una lista di possibili chiusure nel corso del prossimo anno, che comprende anche la biblioteca di Newstead».
«Sul serio?», replica la signora Groves contrariata. «Ma è ridicolo».
«Lo so, ma se non facciamo qualcosa di concreto potrebbe accadere», continuo. «Ormai succede dappertutto. Ogni mese chiudono nuove biblioteche».
La donna mi guarda. «Lo sai che è stupendo il lavoro che fai qui in paese, Rose. Rendi la biblioteca così accogliente…». La sua espressione muta e io mi preparo al seguito. «Nonostante quello che hai passato… La tragedia che hai dovuto affrontare…». Le luccicano gli occhi.
«Grazie». Abbasso il capo e sfodero quel sorriso prima di cambiare discorso. «Ma ora dobbiamo batterci per quello in cui crediamo, giusto? Hanno già tolto tanto al nostro paese». Le avvicino la petizione.
La signora Groves si aggiusta gli occhiali e afferra foglio e penna.
«Verissimo, ma lascia che ti dica una cosa, mia cara: non ci toglieranno anche la biblioteca». La donna riempie il successivo spazio vuoto della raccolta firme con la sua grafia tremolante e alza lo sguardo con aria di sfida. «Gliela faremo vedere noi».
Sorrido, desiderando in silenzio che fosse così semplice. Newstead possiede una delle biblioteche più piccole della contea del Nottinghamshire. Apriamo solo tre giorni alla settimana: l’intero mercoledì e alternativamente mattino o pomeriggio gli altri due giorni.
Mi piace lavorare qui e non ho mai nutrito l’ambizione di trasferirmi in una biblioteca più grande. Ho iniziato la mia carriera circa otto anni fa, subito dopo l’università, come assistente bibliotecaria del signor Barrow. Quando lui è andato in pensione, ho sostenuto il colloquio di rito e mi hanno assegnato il suo posto.
La biblioteca ha sede in un edificio dal tetto piatto collocato all’ingresso del paese, di fronte alla scuola primaria, in una comoda posizione riparata rispetto alla strada principale. Nelle giornate serene, dalla mia scrivania, vedo il bosco oltre la trafficata Hucknall Road che ci scorre davanti.
Il sole, quando splende, inonda la mia postazione da metà mattina a metà pomeriggio.
All’interno, l’arredo è logoro e l’intero ambiente rivela i segni del tempo. I tappeti grigi e ispidi appaiono consunti nei punti di maggior passaggio e gli angoli dei cuscini che rivestono le sedie dell’accogliente sala di lettura sono ormai lisi e sfilacciati.
D’inverno l’aria fredda si insinua attraverso i telai di legno marcio delle finestre e spesso e volentieri l’antiquato impianto di riscaldamento a ventilazione non funziona.
Ma alla gente piace venire lo stesso.
La signorina Carter, ottuagenaria che vive da sempre in Abbey Road con i suoi tredici gatti, mi informa con cognizione di causa che in biblioteca percepisce «una sottile energia di sacralità». Sospetto che cambierebbe opinione se sentisse Jim Greaves, il custode part-time, imprecare a gran voce in marcato accento Geordie quando il riscaldamento si guasta.
Tuttavia, so bene cosa intende. Pur avendo un bisogno disperato di migliorie, la biblioteca emana una bella sensazione. Dev’essere per i libri meravigliosi che custodiamo. Scaffali e scaffali di personaggi brillanti, trame avvincenti e mondi che sembrano abbastanza reali da perdervisi di tanto in tanto, per qualche ora o per giornate intere.
Organizzo un paio di eventi di beneficenza l’anno e con i proventi siamo riusciti ad acquistare dei pouf colorati per ravvivare l’angolo dei bambini e attrezzare una stanza per le mamme con neonati accanto ai servizi.
La scorsa settimana è comparsa un’altra perdita dal tetto e Jim si è precipitato a comprare un nuovo secchio variopinto con i soldi del fondo cassa e, come se non bastasse, le pareti hanno un disperato bisogno di una bella tinteggiata, ma a me piace lavorare qui.
Mi sento a mio agio e al sicuro, nonostante quello che è successo.
Il mio lavoro mi permette di stare a contatto con gli abitanti del paese e con qualcuno dei nuovi residenti arrivati negli ultimi anni, senza rimanere troppo coinvolta nelle loro vite. Ho imparato a indossare una maschera convincente durante le ore di servizio. Dico le cose giuste, sfodero il solito sorriso e rassicuro tutti che, nonostante la tragedia di sedici anni fa, sto bene e tiro avanti.
Ho capito cosa vogliono davvero: dimostrarmi di non aver dimenticato Billy e che io risponda “sì, ora sto bene”.
Perciò li accontento e mi limito a osservare con stanca rassegnazione il sollievo che inonda i loro volti preoccupati.
Nessuno nomina mai Gareth Farnham.
Per la psiche del paese, gestire l’orrore puro delle sue azioni passate è ancora troppo. Ma la sua ombra continua ad aleggiare, come uno sciame fluttuante di insetti, sopra la testa di chi ricorda.
Nel corso degli anni, ho adottato la risposta corretta a ogni domanda, sguardo compassionevole o mano posata sul braccio con le migliori intenzioni. Riesco a sostenere qualsiasi cosa senza problemi, finché non torno a casa e mi chiudo la porta alle spalle.
A quel punto comincia tutta un’altra storia.
Oggi lavoro solo mezza giornata, perciò rincasando mi fermerò alla cooperativa a comprare qualcosa per me e anche per Ronnie, il mio vicino.
Seduta qui, a rifoderare un paio dei volumi più consumati della biblioteca, non riesco a fare a meno di preoccuparmi per lui.
Attaccato con le unghie alla propria indipendenza, seppur alla soglia degli ottanta, di recente Ronnie non è stato bene per via di una fastidiosa influenza intestinale e, come se non bastasse, le sue gambe cominciano a fare i capricci, irrigidendosi in preda a dolori terribili quando lui cammina troppo. Ciononostante devo letteralmente implorarlo perché mi permetta di aiutarlo.
«Hai già tanti impegni, Rose, senza dover stare dietro a me», ha borbottato quando ieri sono passata a controllare cosa gli mancava nella dispensa e nel frigorifero.
L’ho guardato con rassegnazione.
«Ronnie, ti porto solo un po’ di pane e latte al rientro dal lavoro domani, okay?»
«Okay». Mi ha rivolto un mezzo sorriso, con aria penitente.
Per gli altri Ronnie sarà soltanto un vicino come tanti, ma per me rappresenta la famiglia. Lui c’è sempre stato. Sono nata in questa casa e ricordo ancora quando la mamma mi raccontava che avevo a malapena imparato a camminare e già sgattaiolavo dai Turner per farmi viziare con le caramelle e il leggendario gelato alla fragola fatto in casa da Sheila.
«Ronnie lasciava aperto il cancelletto sul retro che separava i nostri giardini, così potevi andare da Sheila ogni volta che ne avevi voglia», rievocò una volta la mamma con affetto. «E quando lui e tuo padre andavano a bersi una birra, cercavi sempre di seguirli fino allo Station Hotel».
Fin dai primi istanti dopo la sparizione di Billy, Ronnie e Sheila Turner ci offrirono il loro sostegno. Ronnie rimase in piedi tutta la notte a coordinare una pattuglia di ricerca che setacciò i terreni dell’abbazia e i boschi dei dintorni fino all’alba del giorno seguente, mentre Sheila preparava da bere e da mangiare per tutti in attesa di notizie. La polizia, convocata dalla contea di Nottingham, disse che non aveva mai visto una mobilitazione del genere.
Quando il corpo di Billy fu ritrovato due giorni dopo, furono Ronnie e Sheila a sorreggerci. Diventammo piume in balia della tempesta per giorni interi che poi si trascinarono in settimane e mesi, e furono loro a tenerci ancorati a terra, impedendoci di vagare alla deriva.
Sheila è morta poco più di cinque anni fa e ora, da quando anche mamma e papà non ci sono più, siamo rimasti solo io e Ronnie. E io gli devo molto.
Comprargli due sciocchezze al supermercato non sarà mai un problema per me.