La scuola senza teoria
Nessuno può negare che Paul Klee (1879-1940) fosse un colorista superbo e fantasioso. Jean-Paul Sartre si spinse oltre: «Klee è un angelo che ricrea i miracoli di questo mondo». Ma è tutt’altro che facile ridurre una composizione di Klee a un qualsiasi principio della teoria del colore. È un mago dei colori, che un momento lavora con luminose sfumature pastello (Autostrade e scorciatoie, 1929), in un altro con rossi lucenti sottilmente modulati (Paesaggio al tramonto, 1923), poi con primari brillanti su uno sfondo onirico nero (Paesaggio e uccelli gialli, 1923; Principe Nero, 1927). Il Bambino con zia (1937) ha tutte le sfumature dell’autunno; i rosa, gli arancio, i verdi e gli azzurri di Facciata di vetro (1940) brillano come se fossero davvero illuminati in controluce. La luce e molto altro ancora (1931) annuncia nel titolo il vero soggetto: la luce, trattata in modo superficialmente divisionista, ma altrimenti senza debito alcuno verso i rigidi codici del Neoimpressionismo. Nulla esprime la vera e propria esuberanza instillata dal colore meglio dei ricordi di Klee sulle fantastiche visioni cromatiche, trovate nella cultura araba durante un viaggio in Tunisia nel 1914, che gli ispirarono una gioiosa rivelazione: «Il colore si è impadronito di me; non devo più dargli la caccia. So che mi tiene in pugno per sempre. Ecco il significato di questo momento benedetto. Il colore e io siamo una cosa sola».7
Non c’è da meravigliarsi che negli anni Venti – quando Klee e Kandinskij figuravano tra gli insegnanti (Meister) – la scuola tedesca di arte, architettura e design del Bauhaus di Weimar ponesse grande enfasi sul colore. Fondato nel 1919, il Bauhaus si prefiggeva il compito (donchisciottesco agli occhi moderni) sia di incoraggiare la creatività di artisti e designer sia di riconciliarne le abilità con le richieste delle industrie per le quali essi avrebbero lavorato. Secondo il gusto di alcuni, la scuola rappresenta oggi tutto ciò che vi è di funzionale e senz’anima nel design moderno, con le sue forme geometriche e il suo rifiuto dell’ornamentazione. Per altri, è il simbolo di un’avanguardia scevra di pretese ed è una dei fulcri del Modernismo. Per i nazisti, che la chiusero nel 1933, era soltanto un covo di arte "degenerata".
Il Bauhaus sorse da una fusione tra l’Accademia d’Arte e la Scuola di Arti Applicate di Weimar. Il primo direttore fu l’architetto e designer Walter Gropius, il cui sogno era sensibilizzare le industrie manifatturiere all’importanza dell’arte. In passato, l’artigiano che produceva oggetti utili era sia un artista sia un tecnico, addestrato a costruire articoli che fossero gradevoli sul piano estetico (che non è lo stesso di inutilmente bizzarri) e al tempo stesso funzionali. Con l’affermarsi dell’industrializzazione, questo anello era andato perduto e la produzione di massa aveva dato origine a merci prive di qualsiasi valore artistico. «L’artista», sosteneva Gropius, «possiede l’abilità di infondere anima nei prodotti inanimati della macchina».
Sostenuto da questa convinzione, Gropius si diede a reclutare rappresentanti abili e fantasiosi sia di arte pura sia di arte applicata, perché insegnassero nei laboratori del Bauhaus e promuovessero una nuova categoria di artigiani creativi. Klee entrò a farne parte nel 1921; Kandinskij lo seguì l’anno successivo. Con questi due luminari tra il personale, la scuola non ebbe difficoltà ad attirare studenti... ma scoprì che molti volevano diventare pittori moderni e avevano scarso interesse a una formazione nei mestieri pratici.
Questo fu solo uno dei problemi di Gropius: tra il personale docente dei primi anni vi era Johannes Itten, insegnante di pittura e allievo di Adolf Hölzel, pittore astratto e accademico dell’arte, per il quale la teoria dei colori era una forte preoccupazione, e che condusse ricerche sulle relazioni tra colore e suono. Itten ereditò dal maestro questa passione per il colore, nonché una propensione verso metodi d’insegnamento non convenzionali.
Meister Itten era un mistico, seguace della setta Mazdaznàn, ispirata all’antico zoroastrismo: teneva la testa rasata, indossava abiti sacerdotali, e incoraggiava gli studenti a fare altrettanto. Il suo pensiero si ispirava agli eccessi sentimentali dei romantici tedeschi del XIX secolo e dei loro eredi, i pittori espressionisti del gruppo chiamato Die Briicke.
Aveva poco tempo per i metodi formali, ma considerava invece l’esperienza e la "scoperta di sé" come le materie prime della creatività artistica. Ai suoi studenti venivano insegnate tecniche di respirazione e concentrazione, ed erano incoraggiati a identificarsi con il loro argomento: prima di tracciare cerchi dovevano descrivere cerchi roteando le braccia; per analizzare il dipinto di Grünewald raffigurante la crocifissione, dovevano piangere come la Maddalena.
Tutto questo faceva di Itten un Meister carismatico, controverso e problematico. Secondo uno dei suoi studenti, Paul Citroën: «C’era qualcosa di demoniaco in Itten. Come maestro era o ardentemente ammirato o altrettanto ardentemente detestato dai suoi avversari, che erano numerosi. In ogni caso, era impossibile ignorarlo».8
Se ne ricava la sensazione che nei primi anni Venti il Bauhaus operasse in condizioni di anarchia a malapena controllata, nonostante gli sforzi di Gropius; molto probabilmente personalità vivaci come Klee e Kandinskij si trovavano a proprio agio in questo ambiente, che però rendeva quasi impossibile stabilire fondamenta teoretiche coerenti. Ciò è tanto più evidente nell’atteggiamento del Bauhaus verso il colore.
Dalla Scuola di Arti Applicate di Weimar il Bauhaus aveva ereditato una tradizione di sperimentazione razionale con il colore ispirata dal Neoimpressionismo. Itten stesso aspirava a stabilire una "grammatica del colore", senza peraltro partorire alcuna idea sul modo di realizzarla. Kandinskij era responsabile della maggior parte degli insegnamenti relativi al colore, ed era costume del Bauhaus che questo venisse studiato da un punto di vista fisico, chimico e anche psicologico; proprio sulla base di questa caratteristica particolare si possono leggere i tentativi di Kandinskij di condurre esperimenti "scientifici" su una psicologia universale dei colori, che però servirono solo a indebolire le sue idee piuttosto dogmatiche sul linguaggio emozionale del colore.
In effetti, sembra chiaro che né Klee né Kandinskij né Itten avessero una conoscenza profonda delle teorie scientifiche contemporanee sul colore. Le lezioni di Klee facevano riferimento alle congetture goethiane e all’uso dei colori complementari da parte di pittori come Otto Runge e Eugène Delacroix; egli tuttavia riteneva che queste teorie avessero un valore limitato quando si trattava di metterle in pratica in pittura, non ultimo perché i "colori" degli scienziati non erano gli stessi dei pigmenti degli artisti: «Naturalmente possiamo usarla per un po’, ma non sentiamo una. vera necessità di una teoria dei colori. Tutte le infinite miscele possibili non produrranno mai un verde Schweinfurt [verde Veronese], un rosso Saturno, un violetto cobalto».9
Non esiste alcuna prova reale che al Bauhaus si possedesse qualche conoscenza delle basi chimiche del colore. Per esempio, il distacco di Itten dagli aspetti materiali del colore lo portava a perpetuare la nozione che l’azzurro della veste della Vergine nell’arte medievale avesse in primo luogo un significato simbolico; il suo Elementi di colore è un testo molto interessante, ma non contiene alcunché di significativo sui pigmenti, la materia stessa del colore.
Nulla di tutto ciò costituisce un ostacolo all’essere un pittore veramente grande, o un colorista fantasioso, ma ci si può chiedere che cosa ne capissero gli studenti. Attorno al Bauhaus potevano ruotare frammenti vaganti di ogni genere di teoria cromatica, alcuni addirittura in aperta contraddizione tra loro; non c’è da stupirsi che Josef Albers, un allievo del Bauhaus in seguito divenuto uno degli insegnanti, cercasse rifugio in un approccio puramente empirico: definiva il colore «il mezzo più relativo dell’arte», soggetto a mutare a seconda del contesto. Dopo la chiusura del Bauhaus, Albers emigrò negli Stati Uniti, dove insegnò pittura al Black Mountain College nel North Carolina. Diede inizio alla serie di quadri intitolata Tributo al quadrato negli anni Cinquanta, quando ormai i suoi quadrati sovrapposti di colore piatto erano diventati l’emblema del Minimalismo americano: queste immagini, a metà strada tra arte e sperimentazione, furono alla base del suo importante libro Interaction of color (Interazione di colore, 1963), in cui suggeriva, riecheggiando Kandinskij, che alcune combinazioni di colori primari, secondari e terziari hanno un particolare significato emotivo.
Non c’è troppo da meravigliarsi, data la sua tendenza iconoclasta, che Itten non fosse destinato a durare a lungo al Bauhaus. Il suo fondamentale conflitto con le opinioni di Gropius scaturiva dall’idea del compromesso necessario col mondo del commercio: era convinto che la vera creatività deve provenire dalla conoscenza di sé affrancata dalle rozze richieste pratiche dell’industria, e informava di conseguenza i propri corsi. Pretendeva che Gropius si decidesse per l’uno o per l’altro atteggiamento: per l’arte pura o per la pura pragmaticità; ma questi ribadì: «Cerco l’unità nella fusione, non nella separazione di questi modi di vita», e nel 1922 espresse la preoccupazione che il Bauhaus potesse diventare un rifugio per eccentrici se avesse perduto il contatto col mondo esterno del lavoro e con i suoi metodi. Itten afferrò l’allusione, e se ne andò in disgrazia con l’intento dichiarato di «restare aggrappato alla [sua] isola romantica».
È emblematico che nel 1923 Gropius proponesse di sostituirlo con un insegnante di chimica, allo scopo di promuovere un ritorno allo studio del colore in quanto materiale (proprio in quell’anno il manifesto del Bauhaus lo classificava esplicitamente come tale, assieme a legno, metallo, vetro e così via). La scuola riaprì il laboratorio di tecniche di tintura che aveva prima fatto parte della Scuola di Arti Applicate di Weimar. Dopo il trasferimento a Dessau, nel 1925, il Bauhaus riaffermò la propria missione come luogo di formazione pratica; Klee e Kandinskij continuarono a insegnare pittura, ma più come artisti che apportassero alfistituzione un senso dell’estetica, che non come insegnanti celebri di una nuova stirpe di modernisti.