Il complesso della doratura
L’unico colore che gli alchimisti non potevano far scaturire dai loro alambicchi era quello che si sforzavano più assiduamente di produrre. Colpito dai raggi obliqui del sole, l’oro incendiava di luce le pale d’altare medievali. Nelle chiese bizantine, come San Vitale di Ravenna del VI secolo, le tessere dorate dei mosaici creano una cupola baluginante di sacro splendore: quale che sia il prezzo dell’oltremare o del vermiglione, l’oro possiede antiche associazioni che rendono il suo valore trascendentale.
L’oro è la sostanza della regalità, quindi offrirlo a Dio era il modo migliore per dimostrare, nell’arte sacra, la propria devozione. Inoltre, a differenza dell’argento e di altri metalli, sembrava immune al passare del tempo: non si ossidava e non perdeva il suo splendore.
L’uso dell’oro nell’arte medievale mostra inequivocabilmente come la natura dei materiali avesse la precedenza su qualsiasi preoccupazione di realismo. Almeno fino al XIV secolo le figure sacre sulle pale d’altare non sono incorniciate dai cieli o dal fogliame della natura, né da drappeggi o architetture, ma da un campo d’oro che non consente né profondità né ombreggiature.
Nelle epoche successive questo splendore metallico fu confinato alla cornice dorata che racchiudeva la tela, ma per l’artista medievale l’oro era un "colore" a pieno titolo. Veniva applicato alle tavole stuccate, sotto forma di lamine sottili, la cosiddetta foglia d’oro; non c’era bisogno di andare dallo speziale per procurarsi questo colore, perché lo si trovava nella borsa di tutte le persone ricche. Gli artigiani del Medioevo, non vincolati da leggi a protezione della moneta, si fabbricavano la foglia d’oro martellando ripetutamente delle monete, trasformandole in lamine così sottili da sembrare quasi senza peso.
Questo compito era svolto da artigiani specializzati, i battiloro, che addirittura fino al XX secolo misuravano il peso della foglia d’oro sulla base del ducato, moneta d’oro dell’Italia medievale: lo spessore era determinato dal numero di foglie (ognuna di circa 8,5 cm2) ricavato da un unico ducato. Cennini specifica qual è lo spessore migliore per i vari usi: «Sappi che l’oro che si mette in piani non se ne vorrebbe trarre del ducato altro che cento pezzi, dove se ne trae cento quarantacinque; però che quel del piano vuole essere oro più appannato. E guarda, quando vuoi cognoscere l’oro, quando il comperi, toglilo da persona che sia buon battiloro. E guarda l’oro; che se l’vedi mareggiante e tosto [rigido], come di carta di cavretto, allora tiello buono. In cornici o in fogliami si passa meglio d’oro più sottile; ma per li fregi gentili delli adornamenti de’ mordenti, vuole essere oro sottilissimo e ragnato».13
Anche il minimo velo di umidità è sufficiente per far aderire questi fogli delicati praticamente a qualsiasi superficie. Albume, gomma, miele e succhi vegetali erano tutti usati per applicare la foglia d’oro alle pergamene manoscritte; venivano chiamati "mordenti all’acqua", ovvero sostanze solubili in acqua che mordenzavano ("mordevano" o fissavano) l’oro. Poiché l’umidità stacca i mordenti all’acqua, era in genere necessaria una vernice che affrancasse l’oro ai pannelli; in alternativa, il pittore poteva usare mordenti a base di olio, generalmente mescolati a un po’ di pigmento colorato. La foglia d’oro mordenzata si adattava a tutte le irregolarità della superficie sottostante, facendole diffondere la luce, e quindi il risultato appariva di un giallo opaco piuttosto piatto. Solo se la superficie veniva lisciata (brunita), strofinandola con un oggetto duro, riacquistava lo splendore riflettente del metallo; a questo scopo era spesso usata una pietra arrotondata oppure un dente: una volta che la foglia d’oro è asciugata rapidamente, dice Eraclio, «che la [si] renda molto brillante con un dente d’orso selvaggio». Brunire, significa letteralmente "rendere bruno", poiché scurisce l’oro nelle parti in ombra, mentre rende più brillanti quelle in luce. «... allora l’oro viene squasi bruno per la sua chiarezza», spiega Cennini.
Sembra probabile che molti dei fondi d’oro delle pitture medievali su tavola fossero strofinati sino a ottenere una levigatezza brillante a specchio, prima che vi fossero aggiunti sopra gli altri elementi della scena. Oggi in genere non sembrano bruniti (tav. 4.5), a causa delle incrinature del supporto, oppure di altre irregolarità o impurità raccolte nel corso del tempo. I caratteri d’oro brunito sui manoscritti si sono spesso conservati meglio.
Ma alcuni fondi d’oro non venivano bruniti, intenzionalmente, fissando la scena dentro una tremula luce scintillante. L’oro qui rappresenta la luce stessa ed era ancora usato nel Rinascimento per suggerire un’illuminazione ultraterrena. È il colore delle aureole, delle lumeggiature sulle vesti dei santi. Cennini raccomanda uno spruzzo d’oro mescolato a tinta verde per far sì che «alcuno àlbore paresse degli àlbori di paradiso»; Botticelli intreccia con l’oro i capelli della sua dea nella Nascita di Venere (1485 ca.) e lo sparge tra le foglie degli alberi dietro di lei.
Non tutto quest’oro era steso in forma di foglia: veniva anche usato come pigmento in polvere; ma poiché si tratta di un metallo tenero e duttile, non di uno fragile, pestarlo nel mortaio tende più a fondere assieme le particelle che a frantumarle in pezzetti più piccoli. Eraclio raccomanda di lavorarlo nel vino, mentre Teofilo fornisce una descrizione dettagliata di un attrezzo per macinare la foglia d’oro in acqua. Doveva trattarsi di un procedimento frustrante, quindi gli artigiani medievali dovettero studiare a fondo la metallurgia alchemica per indurire l’oro e riuscire così a macinarlo.
La convinzione degli alchimisti che i metalli non fossero che miscele di ingredienti di base sempre uguali era suffragata dall’osservazione che l’oro può essere amalgamato al mercurio. Quest’amalgama è una pasta malleabile; avvolta in un pezzo di tela e strizzata per togliere il mercurio in eccesso, diventa dura e fragile, adatta a essere macinata. Col calore il mercurio vaporizza, lasciando oro in polvere, purché si faccia attenzione a non raggiungere una temperatura tale da provocare la fusione dei granelli d’oro. Una tecnica alternativa era battere Foro fino a ottenerne un foglio sottilissimo, che veniva poi macinato con miele o sale, per evitare che le particelle d’oro si saldassero assieme. Entrambi questi metodi sono citati nella Mappœ clavicula.
La tecnica di dipingere con l’oro – la crisografia – permetteva di creare effetti stupefacenti: pochi lo sono più di quelli raggiunti da Bellini nella sua Madonna con Lionello d Este (1440 ca.); qui il manto della Vergine è lumeggiato usando una spruzzatura d’oro che conferisce al tessuto una consistenza serica, eterea e mistica.
Non fa meraviglia che gli artisti medievali non tenessero molto ai veri pigmenti gialli, che erano indubbiamente pallidi surrogati della magnificenza dell’oro. Venivano utilizzati prevalentemente per tingere i metalli bianchi, come l’argento e lo stagno, in modo che assomigliassero al metallo regale. Un pigmento giallo detto "oro musivo", o aurum musaicum in latino medievale, pare fosse usato come "falso oro" nella doratura delle pergamene; si tratta di un tipo di solfuro di stagno e Cennini ne fornisce una ricetta, tra le sue più complesse, benché perfino questa possa essere un’estrema semplificazione del vero procedimento: «togli sale orminiaco [ammonico], stagno, zolfo, ariento vivo [mercurio], tanto dell’uno quanto dell’altro, salvo che meno d’ariento. Metti queste cose in una ampolla di ferro o di rame o di vetro. Fondi ogni cosa al fuoco; ed è fatto».14
Si può dubitare che questa sostanza offrisse davvero un’imitazione convincente dell’oro e il parallelo può essere stato tanto un’elucubrazione della teoria alchemica quanto una vaga descrizione dell’aspetto. Thompson parla di un campione di questo pigmento in un manoscritto medievale fiorentino: «È giusto aggiungere che l’oro musivo è così poco dorato che a un’ispezione superficiale lo si può facilmente scambiare per orpimento o perfino per ocra».
L’Orpimento era un altro interessante succedaneo dell’oro, in particolare nella sua scintillante forma minerale; il nome stesso richiama questo nesso: auripigmentum, "color dell’oro". Gli antichi sostenevano l’idea, chiaramente alchimistica, che la somiglianza superficiale avesse radici più profonde: che l’orpimento contenesse davvero oro. Plinio racconta che l’imperatore romano Caligola estraeva oro dalla forma minerale naturale dell’orpimento. Timorosi dei suoi possibili effetti mortali – Plinio lo chiama arrehenicum, da cui deriva la parola "arsenico" – i Romani impiegavano gli schiavi per estrarlo dal suolo. Ai tempi di Cennini il pittore usava orpimento sintetico proveniente dai laboratori degli alchimisti; la sua affermazione – probabilmente infondata – che «è di color più vago giallo resimigliante all’oro, che color che sia» riecheggia la ricerca della pietra filosofale.
Il pigmento giallo antimoniato di piombo, usato dagli Egizi, era forse quello che Cennini chiama «giallorino». Ha suscitato parecchi dibattiti la sua affermazione che era «colore artificiato, ma non d’archimia»; alcuni hanno ipotizzato che si riferisse a un materiale giallo vulcanico contenente piombo, reperibile sulle pendici del Vesuvio, vicino a Napoli; in questo caso, "artificiale" vorrebbe significare una trasformazione chimica prodotta da forze geologiche piuttosto che umane. Nel suo importante studio del 1849 sui pigmenti storici, Mary Merrifield sostiene che un tipo di "giallo di Napoli" era in effetti un minerale proveniente da questa zona, mentre un altro era antimoniato di piombo sintetico.
Ma è difficile capire che rapporti abbiano esattamente questi minerali col termine giallolino. I pittori medievali adoperavano, seguendo varie ricette, anche pigmenti gialli ricavati da ossidi di piombo e stagno, definiti oggi "gialli di piombo/stagno". Senza dubbio i pittori li confondevano spesso con l’antimoniato di piombo, benché almeno a partire dal XV secolo gli alchimisti fossero sicuramente in grado di distinguere lo stagno dall’antimonio. La Merrifield riferisce che anche il massicot (ossido di piombo giallo) veniva chiamato giallolino, e sarebbe saggio considerarlo un termine generico indicante qualsiasi pigmento giallo a base di piombo.
Per complicare ulteriormente il quadro, un pigmento sintetico giallo a base di piombo, stagno e antimonio è stato identificato in alcuni dipinti italiani del XVII secolo di Poussin e di altri. Sembra che a quest’epoca i fabbricanti di pigmenti sapessero ormai come controllare, almeno in parte, i procedimenti di fabbricazione e quindi le sfumature ottenute. L’inglese Richard Symonds, che si recò a Roma tra il 1649 e il 1651 (e vi incontrò Poussin), riferiva che «vi sono tre o quattro tipi di giallolino, alcuni più rossicci, altri più gialli».
Cennini dice più esplicitamente che l’alchimia fornisce una lacca gialla – che egli chiama «arzica» – estratta dalla guaderella, Reseda luteola; chiamata a volte "erba dei tintori", veniva coltivata per la sua tintura gialla ancora nel XX secolo ed era particolarmente apprezzata per tingere la seta. La lacca gialla ottenuta dalla guaderella poteva essere brillante e abbastanza coprente, e costituiva un buon sostituto dell’orpimento, senza provocarne le temibili conseguenze. Ma Cennini non ne è entusiasta, e afferma che l’arzica «poco s’usa» e ha un «color sottilissimo [che] perde all’aria».
Più significativa per il miniaturista medievale era la lacca gialla ottenuta dalla pianta dello zafferano, Crocus sativus, e da altri crochi; mescolato con albume, lo zafferano produceva un giallo intenso, puro e trasparente; mescolato con l’azzurrite forniva un verde vibrante. Cennini afferma che una miscela di zafferano e verderame produce «un colore il più perfetto che si truova in color d’erba».
Agricola registra che il verderame «fu portato per la prima volta in Germania dalla Spagna», da cui si può di nuovo dedurre che fosse un prodotto dell’alchimia araba. Persino Teofilo quattro secoli prima lo chiama viride hispanicum, e nel tedesco moderno è tuttora chiamato Grünspan. Un verde artificiale contenente rame, elencato nell’inventario dei beni di Grünewald dopo la sua morte nel 1528, è indicato semplicemente come alchemy grun. Il medievale vert de Grèce sottintende però un’origine greca; anche la Mappœ clavicula lo chiama viride grecum. Gli antichi Greci l’usarono di sicuro, e di certo non furono i primi.
Il verderame era un pigmento popolare ma imprevedibile: gli acidi organici usati per prepararlo, in alcuni casi hanno intaccato la pergamena o la carta su cui era applicato, formando buchi netti, come se fossero state mangiucchiate da insetti amanti del verde. Inoltre, alcuni pigmenti tendono a deteriorarsi se accostati al verderame. Questi difetti nel XIV secolo motivarono la ricerca di verdi alternativi, tra cui i principali erano due colori organici detti "verde linfa" e "verde iris".
Il primo proviene dal succo delle bacche di ramno, che è abbastanza denso da essere steso senza agglutinanti; con l’aggiunta di un po’ di gomma, dà un ottimo acquerello, e in questa forma è tuttora in uso (benché il verde linfa venduto come colore a olio all’inizio del XX secolo fosse in effetti una lacca sintetica). Il verde iris, ottenuto appunto dal succo di queste piante, veniva mescolato con acqua e forse con un addensante come l’allume, e usato per miniare manoscritti. Questi, come il folium e la guaderella, sono colori provenienti dai prati e non dalle miniere, e quindi direttamente accessibili per il monaco diligente, come osserva Eraclio: «Colui che desidera trasformare i fiori nei vari colori richiesti dalla scrittura della pagina di un libro, deve vagare nei campi di grano alla mattina presto, e allora troverà vari fiori appena sbocciati».15 Questi estratti naturali erano molto adatti ad adornare le pagine istoriate dei monaci, ma non erano abbastanza resistenti per le pale d’altare.
Nonostante si basasse su resoconti distorti delle tecniche antiche, il Medioevo fu un periodo di notevoli innovazioni nella produzione del colore. Contemporaneamente, la struttura sociale in evoluzione modificò la connotazione della pittura: da attività finalizzata alla decorazione in un contesto strettamente religioso, a mestiere praticato da membri di corporazioni per soddisfare le richieste di committenti appartenenti alla classe dei nobili o dei mercanti, i quali attingevano a una gamma più vasta di soggetti. Questo cambiamento rifletteva una più ampia trasformazione della società, in cui il mistero e la magia – un mondo pervaso da forze spirituali in cui le icone possedevano un potere reale – cedevano il passo al commercio, al primato dei traffici sulla religione, a una mentalità pratica. In certo qual modo, questa stessa trasformazione travolse anche l’alchimia, che mantenne i simboli delle sue radici mistiche, ma che per un artigiano come Cennini era un sistema di produzione come un altro. Queste tendenze raggiunsero la propria conclusione logica nei secoli che seguirono, man mano che le forze del razionalismo cominciavano a sfidare l’autorità della Chiesa e che i pittori trasformavano la propria attività in una disciplina secolare: non un lavoro "sacro", ma un’arte "liberale" colta e intellettuale.