Capitolo Primo
L’OCCHIO DELL’OSSERVATORE
Lo scienziato nell’atelier dell’artista
Il punto di partenza è lo studio del colore e dei suoi effetti sugli uomini.
VASILIJ KANDINSKIJ
Lo spirituale nell’arte (1912)
Poi l’uomo dall’abito blu estrae dalla tasca un grande foglio di carta che apre con cura e mi porge. È coperto dalla grafia di Picasso: meno spasmodica, più studiata del solito. A prima vista assomiglia a una poesia: circa venti versi disposti in colonna, circondati da ampi margini bianchi; ogni verso finisce con uno svolazzo, a volte anche molto lungo. Ma non è una poesia: è l’ultima ordinazione di colori fatta da Picasso...
Per una volta tutti gli eroi anonimi della tavolozza di Picasso escono in schiera dalle ombre guidati dal bianco permanente; ognuno si è distinto in qualche grande battaglia: il Periodo Azzurro, il Periodo Rosa, il Cubismo, Guernica... Ogni colore dice: "C’ero anch’io... ". E Picasso, passando in rassegna i suoi vecchi compagni d’arme, onora ognuno di loro con un tratto di penna, un lungo segno che pare un saluto fraterno: "Benvenuto rosso persiano! Benvenuto verde smeraldo, azzurro ceruleo, nero avorio, viola cobalto, limpido e profondo, benvenuti! Benvenuti!".
BRASSAÏ
Conversazioni con Picasso (1964)
«Ritengo che in futuro si comincerà a dipingere quadri di un solo colore, e nient’altro.» L’artista francese Yves Klein pronunciò questa frase nel 1954, prima di lanciarsi in un periodo "monocromo", durante il quale ogni sua opera era composta da un’unica splendida tinta. Quest’avventura culminò nella collaborazione di Klein col rivenditore di colori parigino Edouard Adam nel 1956, alla ricerca di una nuova sfumatura di blu, tanto vibrante da sconcertare. Nel 1957 lanciò il suo manifesto con una mostra, "Proclamazione dell’epoca blu", che presentava undici quadri dipinti con questo nuovo colore.
Affermando che la pittura monocroma di Yves Klein era frutto dei progressi tecnologici della chimica, non intendo solo dire che il suo colore era un prodotto chimico moderno: l’intero concetto della sua arte era ispirato alla tecnologia. Klein non voleva soltanto esibire colore puro: voleva mettere in mostra la magnificenza del nuovo colore per goderne la consistenza materiale. I suoi sensazionali gialli e arancioni sono colori sintetici, invenzioni del XX secolo. Il blu di Klein era un oltremare, ma non quello naturale del Medioevo, che era a base di minerali: era un prodotto dell’industria chimica, e Klein e Adam condussero esperimenti per un anno per trasformarlo in una vernice dotata della qualità ipnotica che l’artista cercava. Brevettando questo nuovo colore, Klein non proteggeva soltanto i propri interessi commerciali, ma siglava l’autenticità di un’idea creativa. Si potrebbe dire che il brevetto fosse parte integrante della sua arte.
Lusso del colore tipico di Klein divenne possibile solo dopo che la tecnologia in campo chimico aveva raggiunto un determinato livello di sviluppo. Ma in questo non c’era nulla di nuovo, poiché da sempre i pittori si sono basati sulle conoscenze tecniche e sull’ingegno per trovare i materiali adatti a esprimere in immagini i propri sogni e le proprie visioni. Col fiorire delle scienze chimiche all’inizio del XIX secolo, divenne impossibile trascurare questo fatto: la chimica costellava la tavolozza dell’artista. E l’artista se ne rallegrava. «Sia lodata la tavolozza per le delizie che offre... è lei stessa un’"opera" in verità più bella di molte opere!», dichiarò Kandinskij nel 1913. Impressionista Camille Pissarro lo ribadì con forza nel suo Tavolozza con un paesaggio (1878), una scena pastorale costruita direttamente sulla tavolozza, trascinandone gli sfavillanti colori dai bordi.
Gli impressionisti e i loro epigoni – Van Gogh, Matisse, Gauguin, Kandinskij – esplorarono le nuove dimensioni cromatiche aperte dalla chimica con una vitalità che non è più stata eguagliata. Il pubblico era scioccato non solo dal fatto che essi infrangevano le regole – l’abbandono della colorazione "naturalistica" – ma anche dalla vista di colori mai apparsi prima sulla tela: arancioni sfavillanti, porpora vellutati, nuovi verdi vibranti. Van Gogh incaricò il fratello di acquistare alcuni tra i più brillanti e più affascinanti nuovi pigmenti disponibili, e li trasformò in composizioni folgoranti, i cui toni stridenti feriscono quasi la vista. Molti ne furono sconcertati, o si sentirono oltraggiati da questo nuovo linguaggio visuale. Il pittore francese Jean-Georges Vibert, conservatore, rimproverò agli impressionisti di dipingere «solo con colori violenti».
Era peraltro una critica che riecheggiava da secoli, ripetuta ogni volta che la chimica (o il commercio estero, che pure contribuiva ad ampliare la gamma di materiali a disposizione di una cultura) forniva ai pittori colori nuovi o migliori. Quando Tiziano, «principe dei coloristi» secondo Henry James, approfittò della possibilità di operare la prima scelta sui pigmenti sbarcati nei fiorenti porti di Venezia per coprire le sue tele di sontuosi rossi, blu, rosa e violetti, Michelangelo osservò in modo sprezzante che era un peccato non insegnare ai veneziani a disegnare meglio. Plinio, da parte sua, lamentava che l’influsso dei nuovi brillanti pigmenti provenienti dall’Oriente corrompesse gli austeri schemi coloristici che Roma aveva ereditato dalla Grecia classica: «Ora l’India fornisce la melma dei suoi fiumi e il sangue di draghi ed elefanti».
L’influsso dell’invenzione e disponibilità di nuovi pigmenti chimici sull’uso del colore nell’arte è indiscutibile. Come affermava lo storico dell’arte Ernst Gombrich, l’artista non può trascrivere ciò che vede, può soltanto tradurlo nei termini del suo mezzo; anch’egli è strettamente vincolato alla gamma di tonalità che questo gli metterà a disposizione 1
È quindi sorprendente la scarsa attenzione prestata al modo in cui gli artisti ottenevano i loro colori, a fronte dell’importanza data al modo in cui li usavano. Questo trascurare l’aspetto materiale del lavoro dell’artista deriva forse da una tendenza culturale dell’Occidente a separare la forma dal contenuto. John Gage confessa che «uno degli aspetti meno studiati della storia dell’arte sono gli strumenti dell’arte stessa». Anthea Callen, specialista delle tecniche degli impressionisti, spinge la critica più oltre: «Paradossalmente le persone che scrivono d’arte trascurano spesso il lato pratico dell’oggetto del loro studio, concentrandosi soltanto sulle qualità stilistiche, letterarie o formali nel loro discutere di pittura. Di conseguenza, nella storia dell’arte si sono accumulati errori ed equivoci evitabili, ripetuti poi da successive generazioni di critici. Ogni opera d’arte è determinata in primo luogo e soprattutto dai materiali a disposizione dell’artista e dall’abilità di questi nel manipolarli. Così, solo tenendo ben presenti i limiti imposti a un artista da tali materiali e dalle condizioni sociali in cui egli opera, le caratteristiche estetiche e il posto dell’arte nella storia possono essere compresi in maniera corretta».2
Si potrebbe presumere che gli aspetti "artigianali" dell’arte siano meno trascurati quando si discute dell’uso del colore, perché in questo caso la natura dei materiali dovrebbe essere il primo elemento da prendere in considerazione; ma non è sempre così. Nel suo classico History of Color in painting (Storia del colore in pittura, 1965), Faber Birren dichiara che «la scelta dei colori per una tavolozza, o tavolozze, non ha nulla a che fare con la chimica o con la stabilità, la trasparenza, l’opacità o qualsiasi altro aspetto fisico dell’arte». Questa incredibile abitudine di trascurare l’aspetto concreto del colore costituisce senza dubbio una delle premesse che hanno condotto Birren ad assurdità come l’attribuire alla tavolozza di Rubens e dei suoi contemporanei il blu cobalto, quasi due secoli prima che fosse inventato.3 Data l’attenzione che Birren riserva ai colori indispensabili per una «tavolozza equilibrata», è davvero strano quanto poco egli si preoccupi di sapere se gli artisti delle diverse epoche li avessero effettivamente a disposizione.