I nomi dei colori
Prima di poter esplorare ciò che il colore significa per l’artista, dobbiamo chiederci che cosa s’intende per colore. Sembrerebbe abbastanza pacifico, a dispetto del vecchio solipsismo, che non si possa mai sapere se l’esperienza di "rosso" di una persona sia uguale a quella di un’altra; si è d’accordo nello stabilire quando il termine è appropriato e quando non lo è, ma nella maggior parte delle lingue moderne ci sono caterve di termini coloristici molto specifici, che possono dar luogo a discussioni infinite. Quando il color pulce diviene rossiccio, borgogna, ruggine? È in parte una questione di psicologia percettiva, ma il linguaggio dei colori rivela molte cose sul nostro modo di concettualizzare il mondo. Al centro di un’interpretazione dell’uso storico del colore nell’arte vi sono spesso considerazioni linguistiche. Plinio afferma che nella Grecia classica si usavano solo quattro colori: bianco, nero, rosso e giallo; questa tavolozza nobile e limitata è secondo lui la scelta più adatta per tutti i pittori seri. Dopotutto, non fu Apelle, il più famoso pittore greco dell’età aurea, a decidere di limitare la propria scelta entro questa gamma tanto austera?
Non possiamo controllare l’esattezza di questa affermazione perché tutte le opere di Apelle sono andate perdute, insieme a quasi tutti i dipinti prodotti da quella cultura; sappiamo tuttavia che i Greci possedevano una gamma di pigmenti molto più ampia. Quanto ai Romani, nelle rovine di Pompei sono stati individuati non meno di ventinove colori.
Plinio avrebbe dunque esagerato la povertà della tavolozza di Apelle? E, se così fosse, per quale motivo? In parte la ragione potrebbe essere metafisica, poiché quattro colori "primari" corrispondono esattamente ai quattro elementi aristotelici: terra, aria, fuoco, acqua. Ma l’ampiezza dell’uso del colore nella cultura classica può anche essere oscurata dalla lingua. Nell’interpretare antichi scritti sull’uso del colore nell’arte, vi è per esempio grande facilità di confusione tra rosso e verde; il termine medievale "sinopia" – derivato da sinopis di Plinio, che a sua volta proveniva da Sinope, sul Mar Nero, località d’origine di un pigmento di ocra rossa – almeno fino al XV secolo poteva riferirsi sia a un rosso sia a un verde. Il latino cœruleum contiene un’ambiguità simile tra giallo e azzurro (la radice è il greco κύανoϚ, che in alcuni contesti può indicare il colore verde scuro del mare). Non esiste una parola latina per indicare il marrone o il grigio, ma questo non significa che gli artisti romani non conoscessero o usassero pigmenti bruni.
Come è stato possibile confondere il rosso col verde? Da una prospettiva moderna pare assurdo, perché abbiamo in mente lo spettro dell’arcobaleno di Isaac Newton e la terminologia corrispondente, con le sette bande di colore ben definite. I Greci vedevano uno spettro diverso, col bianco (o meglio il chiaro) a un’estremità e il nero (o meglio lo scuro) all’altra ; tutti i colori si trovavano sulla scala cromatica fra questi due estremi: miscele di chiaro e scuro in differenti proporzioni. Il giallo si trovava verso l’estremità chiara (per ragioni fisiologiche appare come il più luminoso dei colori), il rosso e il verde erano entrambi considerati colori medi, a metà strada tra chiaro e scuro, e in un certo senso equivalenti. Il fatto che i dotti medievali si basassero su testi greci classici fece sì che questa scala cromatica si tramandasse per secoli dopo che i templi di Atene erano andati in rovina. Nel X secolo dell’Era volgare, il monaco Eraclio continuava a classificare tutti i colori come bianco, nero e "intermedi".
La confusione tra azzurro e giallo può essere stata semplicemente linguistica, o può avere origine nel fatto che i colori si chiamavano col nome dei materiali da cui erano ricavati. Per motivi tutt’altro che chiari l’azzurro e il giallo sono classificati assieme in molte lingue e culture, comprese alcune lingue slave, il linguaggio ainu del Giappone settentrionale, il daza della Nigeria orientale e la lingua degli indiani mechopdo della California settentrionale. Il latino flavus, che significa giallo, è la radice etimologica di blu, bleu e blau.
Il fatto che l’azzurro si collochi all’estremità scura della scala ci fornisce un’altra ragione per diffidare della sua apparente esclusione dalla lista di Plinio: era visto come una sfumatura di nero, e i termini greci per i due colori coincidono.
Quindi, che un artista consideri o meno due tonalità come colori diversi o varianti dello stesso colore è in gran parte una questione linguistica. La parola gallese glas si riferisce al colore dei laghi di montagna, e comprende una gamma che va da un verde brunastro al blu. Il giapponese awo può voler dire "verde", "blu" o "scuro" a seconda del contesto; anche il vietnamita e il coreano si rifiutano di operare una distinzione tra azzurro e verde. In alcune lingue sono presenti solo tre o quattro nomi di colori.
Poiché non esistono concetti dei colori fondamentali indipendenti dalla cultura, sembra impossibile stabilire una base universale per una discussione sull’uso del colore. Nel 1969, tuttavia, gli antropologi Brent Berlin e Paul Kay tentarono di riordinare la massa di categorie contrastanti proponendo una specie di gerarchia di colori secondo la quale le tonalità emergono in un ordine universale man mano che aumenta la complessità della terminologia coloristica di una cultura. All’inizio, secondo loro, viene una distinzione tra chiaro e scuro, o tra bianco e nero; gli aborigeni australiani e coloro che parlano la lingua dugerm dani della Nuova Guinea dispongono solo di due termini che hanno essenzialmente questi significati. Il colore successivo a essere individuato come tonalità distinta è il rosso; alla lista si aggiunge poi il verde o il giallo, seguito dall’altro dei due; dopo viene l’azzurro, e con gradualità i più complessi colori secondari e terziari: prima il marrone, poi in ordine indefinito il porpora, l’arancione, il rosa e il grigio. Secondo Berlin e Kay, quindi, non esiste un linguaggio che abbia termini indicanti solo il nero, il bianco e il verde, o solo il giallo e l’azzurro; a loro parere il vocabolario coloristico si sviluppa in rigida sequenza.
La validità dell’idea di Berlin e Kay, basata in gran parte su studi antropologici e linguistici di culture contemporanee non tecnologiche, è stata messa molto in discussione; per esempio, l’hanunoo parlato da una popolazione malese/polinesiana delle Filippine, ha quattro termini indicanti colori: "chiaro" e "scuro", che coincidono abbastanza da vicino con "bianco" e "nero", ma anche "fresco" e "asciutto", nella misura in cui si possono rendere con gli stessi termini italiani; alcuni vogliono farli corrispondere a "verde" e "rosso", ma sembra che in realtà alludano sia alla tessitura sia alla tonalità. Curiosamente, non esiste una parola hanunoo che significhi "colore".
Lo schema sinottico di Berlin e Kay permette tuttavia di creare una base per discutere il significato di "colore" attraverso i secoli, e sembra che esistano buone ragioni per ritenere che esso esprima almeno una verità parziale. Parte della difficoltà nell’applicare questa teoria consiste nel fatto che presuppone l’esistenza di termini cromatici "basilari", parole indicanti tonalità, a prescindere dal contesto. Ciò non è sempre vero neppure nei complessi linguaggi moderni. Il francese brun, per esempio, non è l’esatto equivalente dell’inglese brown, ma in alcuni casi può essere sostituito da marron oppure beige, mentre in altri indica "scuro" piuttosto che una precisa sfumatura.
È quasi impossibile individuare termini cromatici basilari, nel senso inteso da Berlin e Kay, nel greco antico; questo ha indotto alcuni commentatori a ritenere che i Greci avessero una scarsa sensibilità verso il colore: nel 1921 Maurice Platnauer affermò che «i colori facevano un’impressione molto meno vivida sui loro sensi... o... provavano scarso interesse per le differenze qualitative della luce scomposta e parzialmente assorbita». 19 L’esperto del colore Harold Osborne riprese quest’affermazione nel 1968, sostenendo che i Greci «non erano portati a un’attenta distinzione delle sfumature di colore».
Ma non vi è ragione di supporre che l’abilità nel distinguere i colori sia limitata dalla struttura del vocabolario cromatico: si possono distinguere sfumature a cui non si è in grado di attribuire un nome, e ih effetti la grande maggioranza delle sfumature percepibili non hanno un nome in nessuna lingua. Si dovrebbe quindi concludere che per i Greci "colore" avesse un significato abbastanza diverso (benché possedessero un termine – χρῶμα o χρoιά – che viene di solito tradotto così). Dato che i loro colori occupavano una scala compresa tra "chiaro" e "scuro", la brillantezza o la luminosità potrebbero essere distinzioni valide quanto la tinta. Platnauer suggeriva che «era la brillantezza, o effetto superficiale, a colpire i Greci, e non ciò che noi chiamiamo "colore" o "tinta"»; una semplificazione eccessiva, forse, ma con ogni probabilità sostanzialmente vera. Egli fa notare che nella letteratura greca si usa la stessa parola per descrivere il sangue coagulato e una nuvola, o lo scintillio del metallo e un albero; ciò forse spiega il famoso enigma sul mare "color del vino" (oίνoψ) nell’Odissea. Ludwig Wittgenstein espresse la stessa convinzione nel suo Osservazioni sui colori. Una grammatica del vedere. «Il nero lucido e quello opaco non potrebbero avere nomi diversi?». (Nei suoi monocromi degli anni Sessanta il minimalista americano Ad Reinhardt li usò in effetti come se fossero davvero colori distinti.)
I Greci possedevano vocaboli per indicare i colori... ma nessuno che sia chiaramente "fondamentale". In genere "rosso" è fatto corrispondere a ερυθρóς (con cui ha una relazione etimologica), ma non esistono valide ragioni per ritenere che questo termine fosse privilegiato rispetto a φoινικoῦς o πoρφjῦς, come lo è il rosso rispetto allo scarlatto o al cremisi. Analogamente "verde" potrebbe essere reso con χλωρóς, πράσινoς o πoώδης, a seconda del contesto.
Il linguista John Lyons considera più prudente concludere soltanto che i colori «sono il prodotto del linguaggio sotto l’influenza della cultura». La fluidità della terminologia cromatica portò spesso a far riferimento ai materiali piuttosto che a concetti astratti di tinta, come base per la discussione sull’uso del colore da parte di un artista. I quattro colori classici di Plinio non erano semplicemente "bianco", "nero" e così via, ma "bianco di Milo" e "rosso di Sinope": corrispondevano a pigmenti specifici. Senza una base teoretica sicura per la classificazione, per parlare di colori bisogna richiamarsi alla sostanza fisica che li fornisce. Lo scarlatto, per esempio, nel Medioevo era un panno di lana colorato, ma non necessariamente di rosso.