Capitolo Ottavo
IL REGNO DELLA LUCE
L’impatto luminoso dell’Impressionismo
Quando uscite a dipingere, sforzatevi di dimenticare gli oggetti che avete davanti: un albero, una casa, un campo o altro. Pensate semplicemente: qui c’è un quadratino di azzurro, qui un ovale di rosa, qui una striscia di giallo, e dipingete proprio come vi sembrano il colore e la forma esatti, finché ottenete la vostra impressione ingenua della scena che vi sta davanti.
CLAUDE MONET
Imbrattate di bianco e nero tre quarti di una tela; strofinate il resto con giallo, distribuite a casaccio delle macchie rosse e blu, e otterrete un’impressione di primavera di fronte alla quale gli esperti saranno rapiti in estasi. Il famoso Salon des refusés, che non si può ricordare senza riderne... era un Louvre paragonato alla mostra sul Boulevard des Capucines.
E. CARDON, CRITICO ALLA PRIMA
MOSTRA IMPRESSIONISTA (1874)
Tra le scoperte del XIX secolo – l’aspirina, le materie plastiche, le leggi della termodinamica – c’è quella dell’artista come genio solitario e incompreso. Intorno al 1800 dipingere non era più un mestiere artigianale ma una professione, una materia accademica disciplinata da regole e da standard riconosciuti di pratica e gusto; era rispettabile, seria... e moribonda. I tempi erano maturi per una nuova connotazione dell’artista, ribelle e controcorrente: l’archetipo dell’umanità moderna.
Gli artisti dimenticati che vivevano e morivano in miseria non erano certo una novità... dopotutto era stato il destino di Rembrandt; ma nel XIX secolo si assiste all’apparire di pittori le cui priorità non erano né commerciali né accademiche. È vero che gli impressionisti potevano adottare uno stile e una tecnica più popolari per un dipinto che speravano di vendere (e alcune delle opere che oggi ammiriamo potrebbero non essere mai state destinate a una mostra), ma questo gruppo e quelli che seguirono non avevano tempo per le regole dell’establishment artistico, né per gli istinti conservatori del pubblico o dei critici. Le uniche regole che applicavano erano quelle da loro stessi stabilite.
Non c’è da stupirsene granché se si considera l’atmosfera soffocante delle accademie di Belle Arti all’inizio del secolo, di cui l’Ecole des Beaux-Artes è il simbolo più rappresentativo. Qui gli studenti imparavano ben poco sul colore, raramente o quasi mai era loro permesso stendere pittura grezza sulla tela; l’accento era posto invece sul disegno, sulla linea e la forma, la luce e l’ombra... un trionfo del disegno sul colore, che si era consolidato all’Accademia francese durante il XVII secolo. La pittura stessa doveva essere esercitata al di fuori dell’Ecole: lo studente entrava in uno dei molti atelier privati, che fungevano più da scuola d’arte che da bottega dove fare apprendistato.
E perfino quando lo studente era considerato abbastanza bravo nel disegno da permettergli di tenere in mano un pennello, il suo primo compito era copiare i dipinti dei maestri, conservati al Louvre, o quelli forniti dal titolare dell’atelier. Tutto ciò si svolgeva in un contesto che mortificava l’innovazione e l’invenzione: si supponeva che nel lavoro finito la mano dell’artista dovesse rimanere invisibile. Lo stile differiva di poco da quello dell’Alto Rinascimento sotto molti aspetti, non ultimo la scelta di soggetti "adatti", come scene tratte dalla mitologia classica; era un tirocinio per diventare professionisti posati, che potevano poi guadagnarsi da vivere vendendo i loro prodotti banali e insignificanti all’agiata classe media.
Il mercato aveva le sue convenzioni rigidamente imposte; a Parigi, per un giovane artista praticamente l’unico modo di far conoscere il proprio lavoro a un vasto pubblico era rappresentato dalla mostra organizzata annualmente dall’Accademia, detta "Salon". La selezione veniva operata da una giuria, costituita per la maggior parte da accademici dai gusti tradizionali, i quali si aspettavano che i quadri presentassero la finitura liscia e lucida richiesta dalla moda dell’epoca. Gli stili radicalmente nuovi avevano poche probabilità di essere ammessi e in effetti il Salon stesso era praticamente un mercato: le pareti erano coperte di opere dal pavimento al soffitto, senza preoccupazione alcuna per la disposizione e poca per la visibilità. Ma non c’era altra scelta.
Non stupisce quindi che gli impressionisti – tra cui spiccavano Pissarro, Monet, Renoir, Manet e Degas – provocassero scandalo e sensazione, quando non venivano semplicemente ridicolizzati. I loro lavori erano considerati abbozzati, incompleti, indisciplinati e raffiguravano soggetti estremamente indecorosi: addirittura gente reale intenta alle sue occupazioni quotidiane!
L’Impressionismo fu un movimento più che mai influenzato dal bisogno ineluttabile dei pittori di esprimersi e di condurre la propria ricerca artistica senza compromessi, piuttosto che seguire pedissequamente rigidi schemi precostituiti. Ma le immagini che produsse, immerse in uno sfavillio di colore, non avrebbero mai potuto esistere senza i materiali adatti. Non basta il pensiero intellettuale astratto a provocare da solo una rivoluzione nell’arte, né questa può essere semplicemente alimentata dalla reazione contro convenzioni stantie. Si potrebbe dire che i fenomeni più eccitanti, da questo punto di vista, si verificano quando tali forze si incontrano con le possibilità offerte agli artisti dai nuovi materiali. E così fu: dopo mezzo secolo durante il quale l’arte visiva aveva assistito alla nascita di alcune delle più straordinarie innovazioni nella fabbricazione dei pigmenti mai immaginate, il palcoscenico era pronto per una nuova mise-en-scène. L’arte non ha mai guardato indietro.