Capitolo Quarto
RICETTE SEGRETE
L’eredità artistica dell’alchimia
Benché gli uomini normalmente attribuiscano grande importanza a ogni cosa preziosa che è stata ricercata con molta fatica e acquistata con gran dispendio, e la conservino con estrema cura, tuttavia, se ogni tanto cose simili o migliori si presentano o vengono trovate gratuitamente, sono conservate con attenzione simile o anche maggiore.
TEOFILO
Schedula diversarum artium (1122 ca.)
Sostanze semplici, vegetali, minerali e viscose. Lasciate sobbollire nel crogiolo del cuore dell’artigiano ben nato, mescolate a fondo e servite fiammeggiante.
GEORGES DUTHUIT
The Fauvist Painters (1950)
A giudicare dalla commedia L’alchimista di Ben Jonson, rappresentata per la prima volta al Globe Theatre di Londra nel 1610, l’alchimia non godeva di grande stima nell’Inghilterra dell’epoca di Shakespeare. Subtle, cui si riferisce il titolo della pièce, è uno spudorato «truffatore a piede libero», un ciarlatano che suggestiona i creduloni con ciance mistiche per derubarli del loro denaro.
Benché sia indubbio che Subtle è un alchimista fasullo, è possibile che Jonson desiderasse spargere simili calunnie anche su coloro che affermavano di essere professionisti autentici; lo scherno è anche più feroce, perché Jonson non è un profano ignorante che costruisce macchiette: si è detto che la sua conoscenza dell’alchimia «fosse maggiore di quella di qualsiasi altra importante figura letteraria inglese, a eccezione forse di Chaucer e Donne». Quando Subtle si esprime con impenetrabile linguaggio alchimistico, usa più o meno gli stessi termini degli alchimisti veri, e nell’accezione corretta. È probabile che il personaggio sia ricalcato su Simon Forman, uno pseudoalchimista dell’epoca, imprigionato parecchie volte per frode ma che riuscì a guadagnarsi abbondantemente da vivere vendendo filtri amorosi, talismani e «molte cose strane ed esotiche alle signore credulone della buona società londinese».
Chaucer condivideva lo scetticismo di Jonson. Il canonico dei suoi Racconti di Canterbury (1387 ca.) è l’archetipo dell’alchimista illuso, che faticava invano in un laboratorio fumoso per trovare la pietra filosofale e riuscire così a trasformare in oro i metalli vili; di conseguenza il suo aspetto è lacero e sudicio: «La sua gabbana non vale un centesimo... è tutta sporca e a brandelli». Come riferisce il suo assistente nel Racconto del valletto del canonico, altri che svolgono la stessa professione non sono migliori di Subtle: uno dei suoi precedenti padroni aveva gabbato un prete avido con la dimostrazione fraudolenta della trasformazione di metalli in argento.
Questa immagine popolare degli alchimisti come imbroglioni e ciarlatani ha fatto sì che la chimica fosse ansiosa di non essere associata alla sua antenata, ma in tempi recenti l’alchimia ha cominciato a spogliarsi della sua reputazione negativa, man mano che gli studiosi hanno messo in luce un quadro più fedele dei suoi successi, di chi la praticava e dell’eredità che ha lasciato. Senza dubbio c’erano molti cialtroni e lestofanti che si dichiaravano dediti all’alchimia, e anche imbonitori ignoranti per i quali la prima motivazione era l’avidità piuttosto che la curiosità, ma per i più sinceri e colti "adepti" dell’arte esoterica l’obiettivo non era la ricchezza: la loro era una ricerca attorno alla natura del mondo in cui le proprietà della materia e le sue trasformazioni erano inseparabili dalle qualità dell’Uomo e della sua vita spirituale.
Fino al XVII secolo era del tutto normale che le persone colte avessero qualche conoscenza alchemica. I grandi dotti del XIII secolo Alberto Magno e Ruggero Bacone avevano familiarità non solo con la tradizione e la letteratura dell’alchimia, ma anche con i suoi metodi pratici, tanto che l’abilità pratica di quest’ultimo gli permise di migliorare la ricetta della polvere da sparo; Martin Lutero confessava che «l’arte dell’alchimia... mi interessa molto... a causa delle sue allegorie e dei suoi significati segreti che sono molto attraenti». Il contemporaneo di Lutero, Paracelso, il fisico svizzero spesso considerato il padre della medicina chemioterapica, fu uno degli alchimisti più influenti del XVI secolo. Isaac Newton dedicò forse più tempo ai suoi esperimenti alchimistici che alle teorie fisiche che trasformarono la scienza del XVIII secolo; ma poiché ai suoi tempi questi interessi erano considerati un po’ disdicevoli, egli fece di tutto per tenerli nascosti.
Anche molti artisti possedevano nozioni di alchimia. Lo xilografo Hans Weiditz della scuola di Augusta, contemporaneo di Albrecht Dürer e di Lucas Cranach, ha lasciato una delle immagini più interessanti dell’alchimista all’opera, in una raffigurazione del 1520 (fig. 4.1). Lo stesso Dürer riempì l’incisione su rame dal titolo Melancholia I (1514) di simbolismi alchemici, che compaiono anche in opere di Cranach, Mathis Grúnewald e Jan Van Eyck. Il fascino dell’alchimia non era tuttavia limitato al Nord, poiché anche gli artisti italiani Giorgione, Campagnola e Parmigianino hanno inserito nei loro quadri allegorie alchemiche.
L’influsso principale dell’alchimia sull’arte non si è tuttavia manifestato solo come fonte di simbolismo occulto, poiché le sue origini non si trovano nella metafisica ma nella prassi dei mestieri antichi. L’alchimia in fondo è l’arte della trasformazione: forniva un inquadramento teoretico che permetteva agli sperimentatori di comprendere i cambiamenti che le azioni di fuoco, acqua, aria, vapori e tempo apportavano ai materiali. Poiché, come si è già visto spesso, questi cambiamenti erano accompagnati da alterazioni del colore, non può stupire il fatto che l’applicazione pratica dell’alchimia diventasse il mezzo per fornire colori artificiali agli artisti.
Cennino Cennini, sempre molto pragmatico, nel suo Libro dell’arte fa riferimento spesso e volentieri alla preparazione di pigmenti tramite l’alchimia, e senza dubbio con questo pensava semplicemente di limitarsi a informare i suoi lettori che i loro materiali potevano essere fabbricati in modo artificiale.
Ma proprio come oggi "chimico" può indicare uno scienziato ricercatore o un tecnico di laboratorio, così "alchimista" poteva avere vari significati. I pittori medievali compravano i propri materiali da speziali e apotecari, artigiani che quasi sempre producevano personalmente i pigmenti: una categoria distinta dai fanatici della pietra filosofale, i quali sondavano invece segreti esoterici che permettessero la trasmutazione del piombo in oro, o affrontavano gli aspetti filosofici e religiosi di quest’arte. Nella sua fondamentale opera Il chimico scettico (1661) già citata, Robert Boyle chiarisce che bisogna tracciare una linea fra i «praticoni» – gli alchimisti pasticcioni di Chaucer, i cui cervelli secondo Boyle erano «obnubilati dal fumo delle loro stesse fornaci» – e gli «iniziati» dediti alla teoria. Ciarlatani e sciocchi popolano il primo gruppo, sostiene, mentre i secondi sono persone serie.
Almeno questo è ciò che vorrebbe farci credere, poiché Boyle stesso aspirava a far parte degli iniziati.1 Ma la distinzione era sicuramente più simile a quella che si traccia spesso oggi tra la grafica e le Belle Arti, o la tecnologia e la scienza: nei tecnici può albergare il desiderio di elevarsi allo status di iniziati, gli iniziati considerano i tecnici come semplici esecutori di ricette. I due gruppi possono non condividere la stessa causa, ma attingono allo stesso pozzo intellettuale. In alchimia il colore era il nesso cruciale fra teoria e pratica, era la chiave della ricerca della crisopoiesi, ed è difficile immaginare che le scoperte emerse durante questi tentativi non filtrassero al livello prosaico della fabbricazione di pigmenti: non è una coincidenza che artisti e alchimisti usassero gli stessi materiali.
E va ricordato che nel Medioevo la magia era altrettanto reale per le persone comuni che per gli alchimisti: era intessuta nella cultura occidentale, e per molti secoli questa trama si sarebbe spezzata senza di essa; era inseparabile dalle credenze religiose, il che a volte provocava disagio alla Chiesa. Anche la pittura era profondamente connotata di religiosità: al tempo stesso un mestiere laico e un’attività devota, che poteva essere investita di un potere spirituale simile a quello dell’arte nell’antico Egitto. Non deve meravigliare quindi che i colori del pittore potessero travalicare la materialità e assumere un significato quasi divino. Quando lo scrittore veneziano del XVI secolo Paolo Pino chiama la composizione dei colori su tela "la vera alchimia della pittura», va tenuto presente che non usa la parola "alchimia" nel modo superficiale e spregiativo oggi in uso, ma vuole sottintendere una vera e propria corrispondenza per cui, come scrive lo storico dell’arte Martin Kemp, i materiali «trascendono misteriosamente la natura delle loro singole parti».