Dentro il paesaggio

A dispetto di questa apparente abbondanza di nuovi pigmenti, gli artisti continuarono a sentirne una forte carenza per tutto il XVI fino al XVIII secolo. In questo periodo, aumentò la tendenza a sperimentare coi materiali, segno che i pittori non erano soddisfatti di quelli di cui disponevano.

Ci fu, per esempio, un proliferare di ricette per i verdi, quando diventò di moda dipingere paesaggi. Agli inizi del XVI secolo l’artista tedesco Albrecht Altdorfer fu uno dei primi in Occidente a raffigurare paesaggi in sé e per sé, benché Leonardo ne avesse già sottolineato le attrattive domandandosi che cosa spingesse un uomo ad abbandonare la sua casa in città lasciando parenti e amici per andare in campagna, sopra i monti e nelle valli, se non la bellezza naturale del mondo...3

Il pittore non poteva fornire questa esperienza al cliente senza che questi varcasse la soglia di casa? Non poteva collocarlo in mezzo a quel paesaggio dove aveva provato piacere qualche primavera, dove poteva vedersi come amante con la propria amata nei campi fioriti, sotto le dolci ombre degli alberi verdeggianti?4

Alcuni storici dell’arte hanno scorto in queste parole il desiderio di un’Arcadia perduta che rese la pittura di paesaggi molto allettante per una popolazione sempre più urbanizzata per motivi economici. Altri fanno notare che i paesaggi non sono descrizioni, ma interpretazioni della natura. Christopher Wood suggerisce che il paesaggio fornisse al pittore un modo nuovo per imprimere la propria personalità artistica su un’opera, in totale e assoluta libertà: «II paesaggio», dice, «era un luogo ospitale per effetti coloristici brillanti».5 Lo scrittore francese del XVII secolo Roger de Piles comprese chiaramente che i pittori ricreavano il paesaggio seguendo la propria fantasia... al punto che questa «realtà immaginata» influiva sulla percezione della natura dell’artista stesso: «I loro occhi vedono gli oggetti della natura nel colore con cui sono abituati a dipingerli».6

Se così fosse, si caricherebbero i verdi che gli artisti avevano a disposizione in quel periodo di una grandissima responsabilità, poiché sotto certi aspetti erano assai poco soddisfacenti. Verso il 1770 il pittore olandese Samuel Van Hoogstraten osservava: «Vorrei che avessimo un pigmento verde buono quanto uno rosso o uno giallo. La terra verde è troppo debole, il verde di Spagna [verderame] troppo crudo e le ceneri [verdeterra verde] non abbastanza durevoli».7 Il pittore spagnolo Diego Velázquez (1599-1660) sembra fosse d’accordo con queste lamentele: non usò mai in vita sua un pigmento verde puro, ma mescolò sempre azzurrite e ocra gialla o giallo di piombo/stagno.

I manuali di pittura fornivano spesso indicazioni notevolmente precise su come mescolare i verdi per le diverse applicazioni. Henry Paecham nel suo The Compleat Gentleman (Il perfetto gentiluomo, 1622) dà il seguente consiglio: «Per un verde triste e profondo, come nelle foglie interne degli alberi, mescolate indaco e pink; per un verde chiaro, pink e massicot [qui giallo di piombo/stagno]; per un verde erba medio, verderame e pink».8

In The Practice of Painting and Perspective Made Easy (La pratica della pittura, 1756) – si può cominciare a vedere a che tipo di pubblico erano destinati questi libri – Thomas Bardwell per i paesaggi suggerisce verdi composti di ocra giallo chiaro, terra verde, pink marrone, blu di Prussia, orpimento e bianco. L’uso dell’orpimento fu in pratica riscoperto nel XVIII secolo, diventando particolarmente popolare in un verde ottenuto mescolandolo con nuovo blu di Prussia. Nel quadro di Jan Van Huysum Malvarose e altri fiori in un vaso (1702-20) i verdi contengono indaco, ma nel 1736, quando dipinse Fiori in un vaso di terracotta, questo era stato sostituito dal blu di Prussia. A volte, invece di mescolare i pigmenti si usava la velatura: un manuale del 1795 descrive un «verde molto vivace e bello» ottenuto velando l’azzurro di pink marrone.

I grandi pittori paesaggisti francesi Claude Lorrain e Nicolas Poussin adoperarono miscele complesse per ottenere i loro svariati verdi. Una formula raccomandata comprendeva una terra verde, un blu (come l’oltremare), un giallo (lacca od ocra) e forse una biacca e un nero. Simili combinazioni non avevano, per così dire, un pedigree ed erano spesso inaffidabili poiché col tempo davano luogo a cambiamenti imprevedibili. L’influsso dei nuovi gialli aumentava i rischi corsi dagli artisti del XVII e XVIII secolo: molti erano meno stabili dei precedenti gialli di piombo/stagno e di Napoli, quindi l’alterazione del colore (in special modo dei verdi ricavati da miscela) nei dipinti di quest’epoca è spesso peggiore che in opere più vecchie. È un’impresa ardua riuscire a decifrare oggi come questi artisti scelsero di rappresentare «la dolce ombra degli alberi verdeggianti».

Colore. Una biografia: tra arte, storia e chimica, la bellezza e i misteri del mondo del colore
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