Il passaggio all’olio

Per ironia della sorte, l’arte dell’Alto Rinascimento italiano ha un enorme debito verso un’innovazione tecnica importata dal Nord, proprio la fonte degli stili "gotici", che per gli Italiani rappresentavano quanto di più barbaro e rozzo vi fosse stato nel Medioevo. Perfino il patriottico Vasari, per il quale i pittori fiorentini erano insuperati, racconta come la pittura a olio fu importata nella sua patria dall’Olanda, dove – informa – era stata inventata da «Giovanni da Bruggia, in Fiandra». Questo Giovanni non è altri che il pittore fiammingo Jan Van Eyck (1390 ca.-1441).

In realtà Vasari attribuisce a Van Eyck molto più di quanto gli sia dovuto. Non fu certo questi il primo a usare l’olio come mezzo per legare i pigmenti: anche gli Italiani lo facevano fin da prima che Antonello da Messina apprendesse i metodi di Van Eyck e li riportasse al Sud negli anni Settanta del XV secolo (che è quanto racconta Vasari); fu però Van Eyck che scoprì come sfruttare il vero potenziale del nuovo strumento.

Gli oli usati per impastare i pigmenti sono i cosiddetti "oli siccativi" – principalmente olio di lino, di noce e di papavero – che asciugando formano una pellicola elastica e resistente all’acqua. L’olio dev’essere raffinato con cura perché asciughi in modo soddisfacente, e a volte l’aggiunta di agenti essicanti come sali di metallo può essere d’aiuto. In ogni caso, l’asciugatura era lenta a paragone di quella della tempera d’uovo: richiedeva ore o perfino giorni invece di minuti. Nel Medioevo questo era considerato un indubbio inconveniente.

La preparazione degli oli di noce e di papavero è descritta da Dioscoride e Plinio, che però non fanno menzione del loro uso come mezzo per dipingere. La prima testimonianza scritta di questa applicazione si deve al Romano Ezio nel tardo V secolo, e una ricetta di vernice a olio (in cui un olio essiccativo è mescolato a resine naturali) è presente in un documento dell’VIII secolo, noto come Manoscritto di Lucca. La più chiara indicazione che un tipo di pittura a olio veniva praticato molto prima del tempo di Van Eyck appare nel Taccuino delle varie arti di Teofilo. Dopo aver descritto la preparazione dell’olio di lino, egli dice: «Macinate minio o cinabro con questo olio su una pietra, senza acqua; stendetelo con un pennello sulle porte o sulle tavole che volete dipingere di rosso, e fateli asciugare al sole... Tutti i tipi di pigmenti possono essere macinati con questo stesso olio e stesi su legno, ma solo su oggetti che possano essere asciugati al sole, perché quando avete steso un pigmento non potete aggiungerne un altro sopra finché il primo non si sia asciugato. Questo procedimento è troppo lungo e tedioso nel caso di figure».4

Max Doerner fa notare che Teofilo (e presumibilmente chi ne seguiva le ricette) aggravò questi problemi usando un normale frantoio per olive per spremere l’olio di lino dai semi della pianta. L’olio di oliva è un cosiddetto "olio non siccativo" e perfino una sua minima contaminazione causata da residui presenti nella macchina avrebbe avuto gravi conseguenze. «Non fa meraviglia che l’olio di lino non si essiccasse», tuona Doerner.

La trasparenza delle pitture a olio le raccomandava anche per tingere i metalli: sottili strati di rosso (velature) erano applicati all’oro per farlo sembrare più brillante (più era rosso, meglio era) e si usava una vernice gialla sullo stagno per un’imitazione economica dell’oro medesimo.

A quanto pare il contributo di Van Eyck è consistito nel salvare la pittura a olio dalla sua reputazione infelice: si rese conto che il procedimento di velatura aveva un enorme valore per l’artista che, con tecnica giudiziosa e pazienza, poteva ottenere colori profondi, ricchi e stabili, mai eguagliabili dalla sola tempera d’uovo. Egli trasformò la velatura da tecnica decorativa artigianale a metodo idoneo ai dipinti più raffinati.

La tecnica di Van Eyck consisteva nello stendere gli oli su un fondo a tempera, combinando l’asciugatura rapida di quest’ultima con il ricco splendore e le possibilità di mescolanze offerte dai primi. Sarebbe quindi sbagliato immaginare che i pittori gettassero alle ortiche i loro metodi a tempera in favore del nuovo strumento: i due coesistettero per molto tempo, e sono molto adatti a questo connubio. Una commistione di tempera e oli è molto comune nell’arte del XV secolo: uno dei primi esempi ne è la splendida Figura allegorica (1459-63) di Cosmè Tura (vedi tav. 11.2).

La velatura si comporta come una specie di filtro colorato: un velo di lacca rossa steso su un fondo blu, lo trasforma in un ricco porpora. Sovrapponendo con cura vari strati di velature all’olio, Van Eyck ottenne colori saturi simili a gioielli, che oggi appaiono sensuali come dovevano essere allora. È difficile immaginare che la sua Madonna del canonico Van der Paele (1436) sia mai stata più ricca di quanto è adesso, e la favolosa cromaticità del suo I coniugi Arnolfini (1434; tav. 5.5) la rende una delle opere più ammirate dell’arte occidentale.

Se queste tecniche fossero state ideate solamente da Van Eyck non è chiaro, ma erano largamente utilizzate dai pittori fiamminghi del XV secolo, alcuni dei quali, come Rogier Van der Weyden (1400 ca.-1464), portarono la loro conoscenza verso Sud durante i viaggi a Venezia. Gli Italiani stavano già sperimentando gli oli all’inizio del Quattrocento; entro la fine del secolo, erano diventati il loro mezzo predominante.

I colori a olio hanno altri vantaggi che ne aumentarono la popolarità. Nell’olio, ogni particella di pigmento è "isolata" da uno strato di fluido, per cui i pigmenti che reagiscono chimicamente tra loro nella tempera possono essere combinati in modo stabile nell’olio. Il pittore poteva quindi essere meno esitante nel preparare complessi amalgami di pigmenti sulla tavolozza. E il fatto che la tinta asciughi lentamente è un vantaggio per il pittore naturalistico, perché offre la possibilità di mescolare i toni e sfumare i contorni sulla tela, caratteristica che si addiceva in modo particolare alla rappresentazione pittorica delle tonalità della pelle, tanto che Willem de Kooning affermò una volta: «La carne è stata il motivo per cui fu inventata la pittura a olio». Così, i contorni netti caratteristici dei lavori a tempera cedettero ai nuovi stili, man mano che gli oli incoraggiavano il pittore a misurarsi fisicamente coi suoi materiali; verso la fine della sua vita, Tiziano fu descritto da un commentatore coévo come uno che dipingeva «più con le dita che con i pennelli».

Vasari, scrivendo nel 1550, non aveva dubbi sulle virtù della pittura a olio: «Fu una bellissima invenzione ed una gran comodità all’arte della pittura, il trovare il colorito a olio... Questa maniera di colorire accende più i colori; né altro bisogna che diligenza ed amore, perché l’olio in sé si reca il colorito più morbido, più dolce e dilicato, e di unione e sfumata maniera più facile che gli altri; e, mentre che fresco si lavora, i colori si mescolano e si uniscono l’uno con l’altro più facilmente; ed insomma, gli artefici danno in questo modo bellissima grazia e vivacità e gagliardezza alle figure loro».5

Ma cambiare il mezzo fa cambiare inevitabilmente la cassetta dei colori. Gli oli, come qualsiasi altro agglutinante, non trasportano i pigmenti crudi senza modificarne l’aspetto. Poiché l’indice di rifrazione degli oli è diverso da quello del tuorlo d’uovo, i pigmenti non mantengono necessariamente lo stesso colore in entrambi: nell’olio l’oltremare è più nero che nella tempera d’uovo; il ricco colore blu si può ripristinare mescolandolo con un po’ di biacca. Di fronte a questo insulto alla sua purezza, l’oltremare poteva con difficoltà mantenere intatto il fascino che esercitava nel Medioevo. Analogamente, il vermiglione – il rosso gioiello medievale – appare meno vibrante nell’olio e gli erano preferite le lacche rosse. Il basso indice di rifrazione della malachite verde la rende piuttosto trasparente in olio, e il suo uso declinò; anche il verderame ha gli stessi inconvenienti e veniva quindi normalmente mescolato con biacca o giallo di piombo/stagno per restituirgli capacità coprente. Un verde alternativo, il resinato di rame, un sale di rame di resine acide, divenne popolare attorno alla metà del XV secolo. Queste conseguenze dell’uso dei mezzi oleosi erano note, almeno nell’Europa settentrionale, fin dal tardo XIV secolo: un manoscritto di quest’epoca intitolato Liber diversarum arcium (Libro sulle varie arti) ammonisce che nell’olio l’azzurro (oltremare o azzurrite) scurisce, l’indaco non asciuga e il vermiglione dev’essere usato con minio... simili adulterazioni di questo rosso un tempo prezioso avrebbero orripilato gli artisti medievali.

Colore. Una biografia: tra arte, storia e chimica, la bellezza e i misteri del mondo del colore
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