I colori dell’autunno

Un’altra risposta al problema di come andare oltre la stupefacente invenzione coloristica del Rinascimento fu quella di evitarla, sottomettendo il colore a luci e ombre estreme. Per Cennini e Alberti, il chiaroscuro significava schiarire o scurire le tonalità di pigmenti puri e brillanti aggiungendo bianco o nero. Ma il tardo Rinascimento e il periodo barocco che seguì divennero un’epoca di ombre profonde, di neri cupi sistemati in drammatico contrasto con lumeggiature fulve. Correggio, Caravaggio e Rembrandt operarono prodigi col nero e col bruno.

Sarà solo una coincidenza che in mezzo a questo splendore dorato e a queste tenebre pesanti siano emersi parecchi nuovi pigmenti gialli, ocra e bruni? Mai prima del XVII secolo l’artista fu così ben attrezzato per coprire la tela con lumeggiature splendenti, passando via via da ombre rossicce fino a un buio di pece.

Fra i vari pigmenti, i marroni sono senz’altro i meno attraenti: hanno goduto di scarsa attenzione da parte degli inventori, dato che possono essere estratti direttamente dalla terra in una vasta gamma di tonalità. Tra le ocre (ossidi di ferro), che sono state utilizzate da tempi immemorabili, quelle di Siena si sono guadagnate una fama particolare durante il Rinascimento. La terra di Siena cruda è un pigmento giallastro; arrostita finché diventa bruciata, assume una calda sfumatura marrone rossiccio.

Per una tavolozza smorzata, nulla eguaglia la profondità della terra d’ombra. Più scura dei pigmenti Siena, a causa di una generosa quantità di manganese nell’ossido di ferro, la terra d’ombra fu introdotta nella pittura europea attorno alla fine del XV secolo. Alcuni hanno ritenuto che il nome fosse di origine geografica come il Siena, che provenisse cioè dall’Umbria; ma sembra più probabile che discenda dal latino umbra, "ombra". Dopotutto, la terra d’ombra europea era venduta per lo più dalla Turchia e non dall’Italia, e il ricco marrone rossiccio della terra d’ombra bruciata era molto apprezzato per ottenere ombreggiature profonde ma traslucide. L’inglese Edward Norgate scrisse intorno al 1620 che la terra d’ombra bruciata è «un colore grasso e sporco, e difficile da lavorare se lo si macina così com’è appena comperato, ma di grandissimo uso per ombre, capelli eccetera».2

Se ai pittori vengono attribuiti i colori che meritano, si saprà che cosa aspettarsi dalle opere di Anton Van Dyck: la terra di Cassel, pigmento di un peculiare grigio brunastro, dal 1790 circa divenne noto in Europa anche come "color Vandyke". È una "terra" solo perché viene preso dal suolo; non è un minerale, però, ma un materiale organico derivato da torba o lignite. Le prime fonti del pigmento erano vicine alle città tedesche di Colonia e Cassel; in Inghilterra nel XVII secolo nomi alternativi erano anche "terra di Colonia" o storpiature come "terra di Cullen" e "terra Colens". A quel tempo era anche elencato come una specie di nero e Norgate ne loda le qualità per il genere di composizioni che stavano diventando sempre più alla moda: è, dice, «ottimo per dare gli ultimi e profondi tocchi ai punti ombrosi dei quadri dipinti dal vivo, e altrettanto utilizzabile nei paesaggi». La trasparenza del pigmento nell’olio rende ariosa la sua oscurità, e Van Dyck lo usava come velatura morbida.

Nel Belgio del XIX secolo, il color Vandyke veniva chiamato "bruno Rubens", perché Van Dyck aveva acquisito le proprie abitudini dal suo insegnante, il più grande maestro di Anversa. Max Doerner afferma che Rubens usava la terra di Cassel «mescolata a ocra dorata, come un marrone caldo trasparente che resisteva bene specialmente nella vernice a resina». Non è un pigmento facile da identificare con sicurezza, ma è stato attribuito a opere di Rubens e Rembrandt, e probabilmente di Velázquez. Thomas Gainsborough (1727-88) fece largo uso di terra di Colonia: il suo debito nei confronti di Van Dyck – che aveva peraltro anche il suo rivale Joshua Reynolds (1723-92) – si spingeva fino a condividerne il gusto per alcuni pigmenti.

Van Dyck, nonché la Scuola inglese che lo seguì, ricavò i suoi marroni da una sostanza catramosa poco invitante, chiamata asfalto o bitume; è difficile credere che questo materiale niente affatto promettente, residuo della distillazione del petrolio, potesse mai essere considerato di un qualche valore, se non in un’epoca ossessionata dal marrone. Rembrandt era un artigiano abbastanza abile da usarlo senza inconvenienti nelle sue velature bruno rossicce, ma nelle mani di uno sperimentatore scatenato come Reynolds si rivelò disastroso: non asciuga affatto bene, e tende a colare se steso in strati spessi. Inoltre lo strato superiore indurendosi si ritira e si raggrinza, facendo crepare e arricciare qualsiasi materiale gli venga pennellato sopra. I pittori francesi dell’inizio del XIX secolo, ligi a una versione di chiaroscuro che richiedeva ombre profonde e traslucide, si gettarono sul seducente tono caldo del bitume, solo per scoprirne troppo tardi gli effetti insidiosi. Théodore Géricault lo impiegò a suo discapito per il quadro Zattera della Medusa (1819), e anche il realista Gustave Courbet ne fece un uso imprudente; nel decennio 1920-30, Max Doerner ammoniva fermamente che «il suo uso è sconsigliato in ogni tecnica».

Van Dyck amava velare le sue ombre con un pigmento simile, scuro e catramoso, chiamato bistro: compare per esempio nel suo ritratto Lord John Stuart e suo fratello Lord Bernard Stuart (1638-39). Questo veniva ricavato dalla fuliggine prodotta bruciando legno di faggio o corteccia di betulla; non si trattava di un materiale nuovo, dato che era stato usato per miniare manoscritti almeno dal XIV secolo, ma ci volevano abilità e competenza per utilizzarlo al meglio con gli oli.

Questa tinta scura è simile a quella che gli impressionisti disprezzavano profondamente nell’arte accademica degli inizi del XX secolo e che permea di sé le tele di Reynolds, Gainsborough e Constable. Nulla riflette lo strenuo conservatorismo dell’epoca di questi ultimi meglio delle parole dell’artista e intenditore sir George Beaumont, protettore di Constable: «Un buon dipinto, come un buon violino, dovrebbe essere marrone».

(Per correttezza verso Constable, andrebbe ricordato che egli protestò piazzando un violino su uno sfondo d’erba, per dimostrare che in realtà la natura non è affatto così fosca. Molte delle opere di Constable, austere agli occhi moderni sintonizzati sul colore del XX secolo, ai suoi tempi erano considerate audacemente vivaci, al punto che un membro della Royal Academy si dice ne abbia definita una come «una sgradevole cosa verde». Constable resistette all’ordine di smorzare i propri colori per avvicinarsi ai supposti contrasti della natura, ma non abbastanza da apparire "moderno" oggigiorno.)

Almeno, questi materiali scuri erano relativamente economici; lo stesso si può dire delle terre e ocre rosse che dominano gran parte delle tele di Van Dyck. Tuttavia, i fabbricanti di colori del periodo barocco scoprirono come produrre versioni artificiali di questi pigmenti naturali, per riuscire così a controllarne le sfumature. Il ferro, il metallo "marziale" degli alchimisti, diede vita a una serie di colori derivati dai suoi ossidi sintetici, che andavano dal giallo, al rosso, al bruno e perfino a un porpora cioccolato detto "rosso Marte".

Non è ben chiaro come si sia giunti a questa innovazione: la reazione - l’ossidazione del ferro all’aria – è abbastanza semplice, e si sa che gli alchimisti medievali la provocavano e chiamavano crocus Martis, traduzione letterale latina di "giallo Marte", il prodotto color ocra che ne risultava. Ciononostante, pare che questa sostanza artificiale non sia mai citata come pigmento per pittura, finché sir Theodore de Mayerne, profugo ugonotto e medico alla corte di Carlo I, non ne fornisce una ricetta in un documento dell’inizio del XVII secolo; benché anch’egli lo chiami crocus Martis o perfino "zafferano", fa capire che il prodotto è rosso. Di fatto de Mayerne cita non meno di tre ricette; tutte non sono altro che modi diversi di ottenere l’ossido: scaldando limatura di ferro, o sciogliendola in aqua regia (una miscela di acido cloridrico e nitrico) e arrostendo i sali di ferro così ottenuti, oppure scaldando direttamente il solfato di ferro ("vetriolo marziale").

Metodi successivi per fabbricare il rosso Marte permisero di modificare a piacere il colore del prodotto. Il vero slancio per la produzione dei rossi di ferro, tuttavia, si ebbe nel XVIII secolo, quando l’acido solforico divenne un articolo d’importanza commerciale, in particolare come candeggiante per l’industria tessile. L’ossido di ferro è un sottoprodotto di questo processo di fabbricazione e quindi, come molti altri pigmenti sintetici prima e dopo, raggiunse una posizione economica autonoma cavalcando una domanda più ampia nell’ambito della nascente industria chimica.

Non c’era più grande richiesta per i crudi toni aranciati del vermiglione, che ora serviva principalmente come tinta di base per velature di lacca rossa. Rembrandt lo usò raramente, legando invece le sue lacche rosse con l’ocra, e diventò comune per gli artisti del XVII secolo regolare i propri rossi mescolando parecchie lacche diverse. La gamma fu ampliata dalla colonizzazione del Nuovo Mondo: dall’America Centrale arrivò un nuovo tipo di cocciniglia, assieme a grandi quantità di brasile e di specie vegetali simili come il pernambuco. La cocciniglia americana si affermò facilmente, tanto che entro il XIX secolo assieme alla robbia rappresentava il colorante principale per le lacche rosse. Le nuove tinture a base di legni, d’altra parte, si conquistarono la fama di scarsa durevolezza, ancora peggiore di quella del brasile del Vecchio Mondo; nel 1553 lo scrittore William Cholmeley definì il brasile «ingannevole» e «falso».

Ma non fu solo dall’Ovest che vennero portati allettanti colori nuovi, poiché questa fu l’epoca in cui gli Europei cominciarono a girare per il globo in tutte le direzioni.

Colore. Una biografia: tra arte, storia e chimica, la bellezza e i misteri del mondo del colore
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