Oltre i mari
L’azzurro in ogni caso difficilmente avrebbe potuto rimanere un colore di secondo piano dopo che, nel tardo Medioevo, apparve in uno dei pigmenti più decantati e preziosi: l’oltremare. Com’era possibile che un colore che costava più del rosso più raffinato (il vermiglione) – in effetti più dell’oro stesso, l’equivalente medievale del giallo – non fosse un primario? L’oltremare, il vermiglione e l’oro furono la gloria della tavolozza medievale; e certo, in una cultura che equiparava il prezzo al pregio, non poteva non esistere una tendenza a riservare una posizione privilegiata alle tinte che formavano questa venerata trinità. Ritengo che non sarebbe esagerato sostenere che la rilevanza assunta dall’azzurro nella tradizione dell’arte pittorica fosse dovuta sia a un’innovazione tecnica nella manifattura dei pigmenti, sia a considerazioni teoretiche.
Lapislazzuli significa semplicemente "pietra azzurra". È di un blu profondo, ricco e seducente (tav. 10.1), ma la purezza del colore scema quando viene macinato, ragion per cui fu invece l’azzurrite a rappresentare il pigmento azzurro naturale del mondo antico. Il lapislazzuli è in realtà un miscuglio di minerali, il cui colore deriva dal componente dominante, la lazurite (da non confondersi con l’azzurrite).
Tra i pigmenti inorganici, l’oltremare presenta l’insolita caratteristica di non derivare il proprio colore vibrante dalla presenza di un metallo di transizione. La lazurite è un alluminosilicato di sodio, appartenente a una classe di minerali in cui la struttura di base del cristallo è composta da atomi di alluminio, silicio e ossigeno. Gli alluminosilicati sono in genere incolori, ma la lazurite si distingue per la presenza, nella sua composizione, di gruppi formati da due o tre atomi di zolfo raccolti assieme; il cristallo assorbe luce rossa spostando avanti e indietro un elettrone tra questi atomi.
L’azzurro intenso del lapislazzuli è venato da screziature dorate, che ne aumentano il fascino come pietra semipreziosa, non dovute però alla presenza di oro, ma di pirite, un composto di ferro e zolfo. In genere sono presenti anche calcite (carbonato di calcio) e altri silicati, cui è da attribuirsi la sfumatura grigiastra della pietra polverizzata. Ciononostante, il lapislazzuli fu usato a volte come pigmento preparato con la semplice macinazione; compare, per esempio, in manoscritti bizantini dal VI al XII secolo, e in dipinti cinesi e indiani dell’XI. Ma a meno che la pietra fosse formata da lazurite molto pura, i risultati erano modesti. Non è stato rinvenuto lapislazzuli macinato (che si dovrebbe riuscire a distinguere dal vero oltremare) in nessun’opera d’arte egizia, greca o romana.
Sembra che la tecnica per produrre l’oltremare sia stata un’invenzione medievale: Arthur P. Laurie, esperto di materiali pittorici della Royal Academy negli anni 1950-60, ipotizza che l’oltremare di buona qualità abbia cominciato ad apparire nell’arte occidentale attorno al 1200; Teofilo, scrivendo verso il 1120, non ne fa menzione: il suo azure è azzurrite.
Il lapislazzuli è un minerale raro: in pratica l’unica fonte durante tutto il Medioevo furono le cave di Badakshan, nell’attuale Afghanistan. Difficilmente accessibile, alle sorgenti del fiume Oxus, sembra tuttavia che la preziosa pietra blu vi venisse estratta fin dall’epoca della civiltà mesopotamica. Solo molto più di recente ne sono stati trovati importanti depositi in Siberia e in Cile.
Marco Polo visitò le cave nel 1271 e se ne meravigliò: «E quivi, innun’altra montagna, ove si cava l’azurro, e è ’1 migliore e ’1 più fine del mondo; e le pietre onde si fa l’azurro, è vena di terra. E àvi montagne ove si cava l’argento».3
Non si sa chi scoprì il metodo per estrarre il pigmento principesco dai detriti di lapislazzuli polverizzato. Daniel Thompson ritiene che il vero oltremare fosse importato in Europa dall’Oriente prima che gli Europei fossero capaci di prepararlo; altrimenti, si chiede, perché continuare a chiamarlo "oltremare", quando anche molte altre materie prime per pigmenti venivano importate? Antiche descrizioni del procedimento di estrazione nella letteratura alchemica araba suffragano questa ipotesi. Una formula è attribuita all’alchimista Jabir ibn Hayyan, ma risale a molto tempo dopo la sua morte, avvenuta nel IX secolo, ed è quindi una delle tante opere di questo tipo che sfruttano l’autorità del suo nome.
La difficoltà principale consiste nel separare la lazurite dalle impurità. La maggior parte delle ricette prescrive che il lapislazzuli macinato vada mescolato con cera fusa, oli e resine fino a ottenere una pasta; questa, avvolta in un telo, va poi immersa in una soluzione di lisciva e lavorata, in modo che le particelle blu della lazurite ne vengano dilavate e si depositino sul fondo del recipiente.
Il procedimento usato sin dal tardo Medioevo è accuratamente descritto da Cennino Cennini e fornisce un’idea degli sforzi cui l’artigiano era disposto a sottoporsi per ottenere questo splendido colore: «Prima, togli lapis lazzari. E se vuoi cognoscere la buona pietra, togli quella che vedi sia più piena di colore azzurro, però ch’è ella mischiata tutta come cenere. Quella che tiene meglio colore di questa cenere, quella è migliore. Ma guar’ti che non fusse pietra d’azzurro della Magna ["azzurro d’Alemagna", azzurrite], che mostra molto bella all’occhio, che pare uno smalto. Pestala in mortaro di bronzo coverto, perché non ti vada via in polvere; poi la metti in sulla tua pria profferitica [pietra di porfido] e triala sanza acqua; poi abbia un tamigio coverto, a modo gli speziali, da tamigiare spezie; e tamigiali e ripestagli come fa per bisogno, ch’abbi in mente, che quanto la trii più sottile, tanto vien l’azzurro sottile, ma non sì bello violante ["violaceo", qui per "intenso"]... Quando hai in ordine la detta polvere, togli dagli speziali sei oncie di ragia di pino, tre oncie di mastrice [resina mastice, prodotta dal lentisco], tre oncie di cera nuova, per ciascuna libra di lapis lazzari: tutte queste cose in un pignattello nuovo, e falle struggere insieme. Poi abbi una pezza bianca di lino e cola queste cose in una catinella invetriata. Poi abbia una libra di questa polvere di lapis lazzari e rimescola bene insieme ogni cosa, e fanne un pastello tutto incorporato insieme. E per potere maneggiare il detto pastello, abbi olio di semenza di lino e sempre tieni bene unte le mani di questo olio. Bisogna che tegni questo cotal pastello per lo men tre dì e tre notti, rimenando ogni dì un pezzo; e abbi a mente, che lo puoi tenere nel detto pastello quindici dì, un mese, quanto vuoi. Quando te ne vuoi trarre l’azzurro fuora, tieni questo modo: fa’ due bastoni d’una asta forte, né troppo grossa, né troppo sottile... E poi abbi il tuo pastello dentro una catinella invetriata, dove l’hai tenuto, e mettivi dentro presso a una scodella di lisciva calda temperatamente; e con questi due bastoni, da catuna mano il suo, rivolgi e struca [premi] e mastica questo pastello in qua in là, a modo che con mano si rimena la pasta da far pane, propriamente in quel modo. Come hai fatto che vedi la lesciva perfettamente azzurra, trannela in ’n una scodella invetriata; poi tolli altrettanto lisciva e mettila sopra il detto pastello, e rimena co’ detti bastoni a modo di prima. Quando la lisciva è ben tornata azzurra, mettila sopra un’altra scodella invetriata, e rimetti in sul pastello altrettanta lisciva, e ripremi a modo usato. E... fa’ così parecchi dì, tanto che ’1 pastello rimanga che non tinga la lesciva; e buttalo poi via, che non è più buono... e ogni dì riasciuga le dette scodelle delle dette liscìe, tanto che li azzurri si secchino... Quando il truovi asciutto, mettilo in cuoro o in borsa».4
È stupefacente che questo metodo funzionasse, dato che non lo si comprende del tutto neppure oggi. Forse il fatto che la lazurite viene inumidita più facilmente dall’acqua, ed è quindi la prima a lasciare l’impasto e a rimanere in sospensione nella soluzione, dipende dalle proprietà superficiali dei granelli di minerale. Come spiega Cennini, per estrarre tutto il pigmento è necessario impastare gli ingredienti parecchie volte di seguito in lisciva fresca. Le particelle più grandi, dal colore più ricco, ne escono per prime, mentre gli ultimi "lavaggi" oltre alle particelle colorate rilasciano anche impurità incolori. Questa "cenere d’oltremare" di qualità inferiore era adoperata per creare velature a olio trasparenti, d’un azzurro pallido. «Ma tieni a mente», dice Cennini, «le prime due tratte, se hai buon lapis lazzari, è di valuta questo tale azzurro di ducati otto l’oncia; le due tratte di dietro è peggio che cendere [cenere]. Sì che, sia pratico nell’occhio tuo di non guastare li azzurri buoni per li cattivi.»5
È difficile credere che il costo e la fatica necessari per produrre l’oltremare sarebbero stati accettati se il risultato non fosse stato così splendido da contemplare un colore simile a quello che segna il passaggio dal crepuscolo alla notte, con una sfumatura porpora che ne esalta la grandiosità. Cennini ne canta le lodi in modo entusiastico: «Azzurro oltre amarino si è un colore nobile, bello, perfettissimo oltre a tutti i colori, del quale non se ne potrebbe né dire né fare quello che non ne sia più».6