Una mappa dell’universo del colore
L’idea che i colori, in quanto sostanze chimiche, siano costituiti da componenti elementari risale all’antichità. Per i Greci esistevano solo due vasti regni primari nell’universo del colore, e non corrispondevano affatto a "colori", ma a chiaro e scuro. Il blu era scuro con un pochino di luce, il rosso era chiaro e scuro in egual misura, e così via.
Fu solo nel XVII secolo che si affermarono i tre colori "primari" moderni. Nel 1601 l’italiano Guido Antonio Scarmiglioni, professore di medicina, avanzò l’ipotesi che vi fossero cinque colori "semplici" di cui si supponeva fossero costituiti tutti gli altri: bianco, giallo, azzurro, rosso e nero. Robert Boyle, lo studioso cui in genere si attribuisce il concetto moderno di elemento chimico, riprese questo quintetto con maggiore autorità nel 1664, affermando che con questi cinque «l’abile pittore può produrre tutti i colori che desidera, e molti altri ancora per i quali non esiste ancora un nome».
Ma, quale rapporto hanno essi con i colori "irriducibili" dell’arcobaleno di Newton? La luce solare bianca non è composta soltanto dai tre primari, ma contiene anche il verde, l’arancio e – se si riconosce l’arbitrarietà delle ultime due suddivisioni newtoniane – il porpora. Tuttavia questi tre sono i colori secondari, ognuno dei quali può essere ottenuto dal pittore mescolando due primari. Nell’arcobaleno, il verde si colloca nitidamente fra il giallo e l’azzurro, e l’arancio fra il giallo e il rosso. Ma il porpora, la miscela di rosso e blu, si trova (come il violetto) oltre l’azzurro, all’estremità opposta al rosso. È evidente l’invito a unire le estremità dello spettro a formare un cerchio: una ruota di colori (tav. 2.1). È proprio ciò che fece Newton nel suo trattato Opticks (Ottica, 1704), accostando il rosso al violetto tramite un colore non di quelli «prismatici, ma un porpora tendente al rosso e al violetto».
In termini di fisica, la ruota dei colori è un espediente artificioso, poiché la luce che illustra aumenta di frequenza dal rosso al violetto, prima di ritornare al rosso con un brusco balzo. Ma la ruota organizza lo spazio colorato in uno schema simmetrico, in cui primari e secondari si alternano, e i risultati delle mescolanze sono chiaramente individuabili. Questo non è affatto, tuttavia, il modo in cui la vedeva Newton: egli non attribuiva particolare importanza ai colori che ora vengono considerati primari, e la sua ruota era uno schema a sette raggi con spicchi ineguali (fig. 2.3), mentre i successivi teorici del colore tesero ad accentuare la simmetria (fig. 2.4).
Benché non vi fosse unanimità sul numero di suddivisioni, la ruota dei colori divenne un’icona nelle teorie coloristiche del XIX e dell’inizio del XX secolo, e a pochi artisti era sconosciuta questa rappresentazione emblematica del territorio su cui si muovevano. Una delle ruote di colore più memorabili fu quella pubblicata dal teorico e chimico francese Michel-Eugène Chévreul nella sua opera Des couleurs et de leurs applications aux arts industriels (Dei colori e delle loro applicazioni nelle arti industriali, 1864); qui, le morbide gradazioni da un colore al successivo (tav. 2.1) portarono la tecnologia di stampa a colori dell’epoca all’estremo delle sue possibilità, e per questo lavoro lo stampatore Monsieur Digeon vinse un premio dalla Société d’Encouragement pour l’Industrie Nationale. Era ben meritato: ancor oggi la ruota originale continua a essere stupefacente.
La ruota dei colori fornisce agli artisti un principio organizzativo, ma non aiuta a risolvere le apparenti discrepanze tra colori primari nelle miscele di pigmenti e quelle nelle mescolanze di luce; nel primo caso il giallo è primario e il verde secondario, nel secondo è il contrario. Inoltre, unendo rosso, giallo e blu si ottiene il nero (o quasi), mentre Newton affermava che l’intero arcobaleno di tinte mescolandosi dà il bianco. Goethe e i suoi sostenitori furono lesti ad attaccarsi a questa apparente contraddizione della teoria newtoniana: qualsiasi sciocco poteva vedere che nessuna miscela di pigmenti produceva bianco puro né alcunché di vagamente simile.
James Clerk Maxwell dissipò la confusione – tra gli scienziati almeno – dimostrando nel 1855 che tre tipi di luce colorata sono sufficienti a generare in pratica tutti i colori: arancio-rosso, azzurro-violetto e verde. (Questa triade viene in genere indicata semplicemente come rosso, azzurro e verde.)
Mescolare la luce, spiegò Maxwell, non è lo stesso che mescolare pigmenti. Fondendo raggi luminosi di diverse lunghezze d’onda, si sintetizza colore sommando varie componenti che assieme stimolano la retina dell’occhio a creare una determinata sensazione di colore. Questa sintesi si chiama "additiva"; invece di usare raggi luminosi, si può ottenerla alternando rapidamente i diversi colori nel campo visivo. Nei suoi primi esperimenti Maxwell, assistito dal teorico del colore e decoratore d’interni scozzese D.R. Hay, si servì di dischi rotanti dipinti con i tre colori primari additivi; tali dischi erano costituiti da segmenti collegati e sovrapposti, che permisero a Maxwell di variare le proporzioni finché non riuscì a ottenere un grigio argento acromatico. Nel 1860 Maxwell ideò uno strumento che gli permise di sintetizzare un’ampia gamma di colori direttamente dalla luce, mescolando in varie proporzioni raggi di tre lunghezze d’onda diverse ("rosso", "azzurro" e "verde").
Una miscela di pigmenti, al contrario, sottrae lunghezze d’onda alla luce bianca; cioè i pigmenti non sono la fonte della luce che provoca una sensazione cromatica, ma sono mezzi che agiscono su una fonte di illuminazione esterna. Un pigmento rosso assorbe i raggi azzurri e verdi e gran parte dei gialli: viene riflessa solo la luce rossa; un pigmento giallo può togliere i rossi, gli azzurri e gran parte dei verdi. Quindi, una mescolanza di rosso e giallo riflette soltanto i raggi compresi nella stretta gamma in cui la capacità di assorbimento da parte di entrambi i materiali non è troppo forte: nella zona arancione dello spettro. Ogni volta che si aggiunge un pigmento a una miscela, si sottrae dalla luce riflessa un altro settore dello spettro: il risultato è che il colore diventa più smorto e cupo. Ogni volta che si aggiunge un raggio luminoso a una miscela, d’altro canto, nel raggio che ne risulta sono immessi più fotoni, e il fascio di luce combinata diventa più luminoso. 8 La miscela di pigmenti con cui si preparano i colori si chiama dunque sottrattiva.
La miscela sottrattiva penalizza inevitabilmente la luminosità dei pigmenti, perché gran parte della luce è assorbita dalla miscela stessa. Per esempio, la maggior parte dei pigmenti rossi e gialli assorbe senza scampo un po’ di luce arancione; l’arancio che deriva dalla loro unione non è quindi molto brillante: una parte della luce arancione presente in quella bianca, che illumina l’immagine, va persa. Al contrario, un vero pigmento arancione non assorbe luce nel segmento "arancio" dello spettro, e quindi non presenta questo difetto; ecco perché può essere più vibrante di una miscela di rosso e di giallo. Il tecnico del colore George Field lo spiega nel suo libro Chromatography (Cromatografia, 1869), alludendo al tempo stesso ai rischi chimici delle miscele (la possibilità che i pigmenti possano reagire tra loro; vedi cap. 11): «Ora, più i pigmenti vengono mescolati, più il colore si deteriora, viene attenuato e muta chimicamente. I pigmenti originali, che cioè non sono formati da due o più colori, hanno sfumature più pure e in genere più durature di quelli composti... l’arancio cadmio, per esempio, che è naturalmente un pigmento arancione non composto di rosso e giallo, è superiore in senso chimico a molte miscele di questi colori, e a tutte in senso artistico».9
Quindi, l’antico tabù sulle miscele era ancora forte nel XIX secolo. Fino a questo momento gli artisti non avevano a disposizione alcun pigmento puro arancione, e neppure violetto, di buona qualità.