Il nastro scozzese di Maxwell

Invenzione della fotografia a colori avvenne sorprendentemente presto. Chi vedeva le prime immagini fotografiche intrappolate sotto il vetro dei dagherrotipi, o evidenziate in argento scuro sulla carta da calotipia di Fox Talbot, sentiva la mancanza del colore, che ricreasse il mondo come appare nella realtà; quindi queste prime fotograf venivano colorate a mano. Nel 1859 lo stampatore George Baxter brevettò l’idea di colorare foto tramite la sua complessa tecnica xilografica.

Questa però era solo una maniera più efficace di aggiungere in modo artificioso colore dopo che l’immagine era stata sviluppata, mentre sarebbe stato preferibile creare lastre da stampa che venissero colorate direttamente dall’esposizione fotografica. Verso il 1860, un tale Burnett dell’Edinburgh Photographic Society azzardò il suggerimento che con la fotolitografia o altri metodi d’incisione fotografica si potesse ottenere il risultato tramite il semplice espediente di cancellare a mano le zone della lastra da stampa dove non si voleva il colore. Si potevano ottenere stampe multicolori con l’accumulazione di aree di colore diverse, nello stesso modo in cui venivano allora prodotte stampe policrome incise a mano, e la collotipia divenne un mezzo diffuso per raggiungere questo obiettivo.

Preparare le lastre col metodo fotografico era certo più semplice che inciderle a mano, ma era ancora necessaria una lastra per ogni singolo colore dell’immagine. Un procedimento in tricromia che desse luogo a illustrazioni completamente colorate a partire da tre soli primari avrebbe rappresentato una notevole economia: bisognava però trovare innanzitutto una maniera di esporre le lastre fotografiche in modo tale che fossero sensibili ai colori, per ottenerne scomposizioni in primari.

Il suo lavoro sull’ottica dei colori e sui primari additivi, assieme alla conoscenza della teoria di Thomas Young sulla visione a colori, fornirono al fisico James Clerck Maxwell un’idea chiara di come un’immagine colorata possa essere costruita partendo da scomposizioni monocrome. Nel 1857 egli scriveva: «Questi tre effetti elementari, secondo [Young], corrispondono alla sensazione di un’immagine rossa, verde e violetta, cosicché con la sovrapposizione di tali immagini, viene rappresentato il variegato mondo reale».12

A questo scopo, verso il 1860 incominciò a compiere esperimenti con l’aiuto del suo assistente Thomas Sutton: esposero alla luce naturale, in esterni, una lastra fotografica al collodio davanti alla quale avevano collocato un fiocco di nastro scozzese multicolore, attaccato a velluto nero. Inserendo filtri colorati tra l’oggetto e la lastra, ottennero negativi che registravano singolarmente la luce di ciascuno dei primari additivi. Per esempio: parti rosse del nastro, che assorbono luce verde e azzurra, non apparivano nelle esposizioni realizzate attraverso filtri verdi e azzurri.

Questi filtri erano costituiti da recipienti di vetro contenenti soluzioni colorate; chiunque fosse legato al mondo della produzione dei colori avrebbe senz’altro usato tinte standard, ma come scienziato Maxwell aveva più familiarità con i colori del laboratorio chimico accademico: il blu reale del solfato ammoniacale di rame, il verde del cloruro di rame, il rosso del tiosolfato di ferro.

Per ricostruire dalle scomposizioni negative l’immagine multicolore, Maxwell fece passare luci colorate attraverso ciascuna di esse e sovrappose le immagini proiettate su uno schermo. Rese noti i suoi risultati in una conferenza dimostrativa tenuta alla Royal Institution nel 1861 ma, nonostante il successo clamoroso della dimostrazione,13 egli era conscio dei limiti del suo procedimento. Sapeva che l’emulsione fotografica standard da lui usata era molto meno sensibile alla luce rossa e verde che all’azzurra, per cui l’immagine ricostruita non era fedele: «... se le immagini rosse e verdi fossero state fotografate completamente, come l’azzurro, [il risultato] sarebbe stato una vera fotografia a colori del nastro. Trovando materiale fotografico più sensibile ai raggi meno rifrangibili [lunghezze d’onda maggiori], la presentazione dei colori degli oggetti potrebbe migliorare in modo considerevole».14

In effetti, l’emulsione rispondeva così debolmente alla luce rossa che ne avrebbe a malapena registrato la scomposizione. Studi moderni hanno comunque rivelato che, per buona sorte di Maxwell, la luce ultravioletta veniva riflessa anche dalle parti rosse del suo nastro scozzese e questo faceva sì che il sale d’argento si convertisse in metallo d’argento.

La necessità di riprendere tre differenti immagini della stessa scena rappresentava naturalmente un inconveniente notevole per i fotografi del XIX secolo. Nel 1893 l’intraprendente inventore americano Frederick Eugene Ives semplificò il tutto con i suoi Kromogram, che poteva prendere tutti e tre i negativi in rapida successione attraverso filtri rossi, verdi e azzurro-violetti; nel 1900 aveva già scoperto come farlo con un unico scatto. L’immagine a colori veniva poi ricostruita visionandola attraverso un proiettore speciale di sua invenzione, detto Kromscop.

Maggior successo commerciale come mezzo per riprodurre immagini a colori ebbero le lastre Autochrome realizzate nel 1907 dai fratelli Auguste e Louis Lumière, gli inventori della cinematografia. Queste erano ricoperte di minuscoli granelli di amido di patata tinto di rosso, verde e azzurro, su cui si trovava l’emulsione sensibile alla luce. Le esposizioni venivano effettuate attraverso lo strato tinto, che fungeva da filtro colorato; dopo lo sviluppo, si preparava dal negativo una diapositiva in cui piccoli puntolini di luce nei colori primari, trasmessi attraverso i granelli di amido, si combinavano otticamente producendo un’immagine a colori come i pixel di uno schermo televisivo.

I fratelli Lumière idearono i princìpi del sistema Autochrome parecchi anni prima di poterli mettere in pratica. Erano ostacolati dallo stesso problema che si era presentato a Maxwell: le emulsioni disponibili non erano "pancromatiche", ugualmente sensibili a tutte le lunghezze d’onda della luce visibile. Fu solo con l’invenzione dei nuovi coloranti sensibili al rosso – a opera dei chimici degli stabilimenti IG Farben, nel 1905-06 – che l’assorbimento della luce rossa da parte delle emulsioni fotografiche poté essere accresciuto per produrre lastre davvero pancromatiche.

Da un punto di vista storico, il sistema Autochrome è eccentrico: rappresenta un mezzo per sensibilizzare selettivamente l’emulsione fotografica a particolari colori, installando di fronte alla pellicola una specie di schermo "puntinistico" di filtri colorati. Ma nel 1873 lo scienziato tedesco Hermann Wilhelm Vogel aveva già proposto un modo migliore per eliminare la necessità dei filtri liquidi di Maxwell: elaborò emulsioni fotografiche insensibili a uno solo dei tre primari, aggiungendovi coloranti che assorbivano solo luce rossa, oppure verde, o azzurra. Il colore di queste tinture deve essere complementare a quello a cui sensibilizzano la lastra: un colorante rosso la sensibilizza non alla luce rossa (che viene riflessa o trasmessa) ma a quella verde (che viene assorbita).

In effetti, il sensibilizzatore ideale per il verde rifletterebbe sia la luce rossa sia quella azzurra, e apparirebbe quindi purpureo – del colore detto magenta – e non rosso puro. Analogamente per il sensibilizzatore azzurro: rifletterebbe il verde e l’azzurro, e risulterebbe quindi del colore noto ai tipografi come ciano. I sensibilizzatori ideali, in altre parole, assorbirebbero un terzo della luce bianca dello spettro e ne rifletterebbero i due terzi: ciano ("bianco meno rosso"), giallo ("bianco meno azzurro") e magenta ("bianco meno verde").

Vogel utilizzò naftochinoni e ftalocianine (composti azzurri) per la lastra sensibile al rosso, ed eosina rosata per quella verde. Inizialmente non ritenne essenziale aggiungere un sensibilizzatore (di colore giallo) per la scomposizione azzurra, poiché il bromuro d’argento dell’emulsione è comunque fondamentalmente sensibile alla luce di questo colore; in seguito però usò fluorescina giallo-verde come sensibilizzatore azzurro. Tutti questi, come si può notare, sono coloranti derivati dal catrame di carbone, risalenti al 1870-80 (vedi fig. 9.1).

Vogel era interessato a usare queste scomposizioni per preparare lastre da stampa in tricromia – che, in fondo, non è altro che il modo in cui la fotografia a colori fornisce riproduzioni al pubblico di massa – ma il si-stema di usare coloranti per sensibilizzare le emulsioni fu adottato anche per diapositive e stampe a colori... che portarono all’immenso mercato della fotografia amatoriale a colori a partire dal 1960.

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FIGURA 12.3 La pellicola fotografica contiene tre strati fotosensibili, ognuno sensibilizzato tramite coloranti ai tre additivi primari. Un filtro giallo protegge dalla luce azzurra diffusa gli strati sensibilizzati al verde e al rosso. Per ottenere il negativo, si sostituiscono alle particelle d’argento formate dall’azione della luce, coloranti giallo, magenta e ciano. Per ottenere una stampa, si espone attraverso il negativo una pellicola a tre strati e si aggiungono coloranti azzurri, verdi e rossi nelle zone esposte.

Il passo successivo in questa direzione fu compiuto, nel 1911, dal chimico tedesco Rudolf Fischer con l’invenzione di una pellicola che eliminava la scomoda necessità di tre scomposizioni di colori. Nella pellicola di Fischer le tre emulsioni non sono divise su tre lastre separate ma sono sovrapposte a strati su un unico supporto (fig. 12.3). Tutte le moderne pellicole fotografiche sono basate su questo prototipo. Il modo in cui la pellicola è trasformata in un vero negativo a colori, da cui si possono preparare stampe positive, è oggi leggermente diverso da quello usato da Fischer, ma i principi sono all’incirca gli stessi.

L’obiettivo è trasformare una zona di emulsione scurita, in cui i granelli d’argento sono precipitati, in una di colore traslucido della tinta adatta. Per depositare in queste aree tinte complementari al colore a cui lo strato è sensibilizzato, si adoperano i cosiddetti agenti accoppiatori. Per esempio, dove lo strato sensibilizzato all’azzurro si è annerito, l’agente accoppiatore deposita sulle particelle d’argento un colorante giallo; le particelle d’argento precipitate e i sali d’argento non esposti vengono allora tolti chimicamente dall’emulsione, creando un negativo.

Nella prima parte del secolo, le compagnie fotografiche come l’Agfa (che aveva esordito a Berlino come fabbrica di coloranti) e la Kodak ebbero notevole sviluppo, grazie alla richiesta di materiale fotografico a colori da parte di agenzie pubblicitarie, gallerie d’arte e industrie; negli anni Trenta lanciarono rispettivamente le pellicole a colori Agfacolor e Kodachrome, e nel decennio successivo lanciarono sul mercato metodi per ottenere stampe a colori positive da negativi (fig. 12.3).

Per rimediare ai difetti più evidenti dei materiali, le moderne pellicole fotografiche sono una specie di mosaico. Poiché la conversione dei sali d’argento in argento è particolarmente sensibile alla radiazione ad alta frequenza (cioè alla luce azzurra), gli strati sensibili al rosso e al verde, che si trovano sotto l’azzurro, devono essere protetti, con l’interposizione di un filtro giallo, da ogni luce estranea azzurra che attraversi lo strato superiore.

Più problematico resta il fatto che i coloranti sono inevitabilmente primari imperfetti: la tinta magenta assorbe un po’ di azzurro e quella ciano anche un po’ di verde: ciò significa che il ciano nel negativo conferisce in potenza una tinta rosata al positivo e il magenta è inquinato dal giallo. Per controbilanciare questo difetto, agli strati ciano e magenta del negativo si aggiungono altri coloranti pallidi per ripristinare l’equilibrio dei colori.

Idealmente i coloranti dovrebbero avere una netta banda di assorbimento entro le rispettive gamme di lunghezze d’onda, senza sovrapposizioni reciproche: in questo modo, per esempio, la luce verde non contaminerebbe la scomposizione azzurra. La fisica dell’assorbimento di luce non funziona però in questo modo, poiché si verificano sempre un aumento e una diminuzione più o meno marcati dell’assorbimento via via che la lunghezza d’onda muta (vedi fig. 12.4). Poiché i coloranti usati nell’industria tessile non sono destinati a soddisfare esigenze tanto specifiche, sono stati compiuti sforzi notevoli per produrne di mirati, che possiedano caratteristiche il più vicino possibile all’ideale; i tentativi di giungere a una sintesi razionale del colare, iniziati da Otto Wint nel XIX secolo, sono quindi divenuti di primaria importanza per la verosimiglianza della fotografia a colori.

Colore. Una biografia: tra arte, storia e chimica, la bellezza e i misteri del mondo del colore
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