Misurare il colore
La ruota dei colori ha fatto molti progressi dall’epoca di Newton. La sua versione moderna più diffusa è meno gradevole all’occhio, ma contiene molte più informazioni: un diagramma di colori studiato dalla Commission Internationale de l’Eclairage (CIE) (tav. 2.2), chiamato pomposamente "curva cromatica CIE". Le lunghezze d’onda "pure" dello spettro newtoniano si trovano lungo la curva a forma di lingua, mentre i colori all’interno derivano da varie sintesi additive di questi raggi; qualsiasi colore si trovi lungo una linea che collega due punti del bordo può essere ottenuto mescolando quei colori dello spettro. Se la linea passa attraverso la zona bianca situata al centro, mescolando i due colori periferici si ottiene il bianco. Così la luce bianca può essere creata solo col giallo e con l’azzurro (come avviene negli schermi televisivi monocromatici), ma non col rosso e col verde.
L’artificiosità dell’accostamento di rosso e violetto sulla ruota dei colori è messa in risalto dalla base piatta che unisce le estremità della curva: i colori disposti lungo di essa, come lo stesso Newton ammetteva, non si trovano neppure dipanando minuziosamente i fili dell’arcobaleno.
Ma a dispetto di tanta gloria, il diagramma CIE non offre tutti i colori: dov’è il marrone? Dov’è il rosa? Esiste chiaramente molto più spazio colorato di quanto possa essere contenuto nei Mandala delle ruote di colore.
La caratteristica che definisce un materiale colorato non è se la sua sfumatura sia più vicina al regno del rosso che non a quello dell’azzurro o d’altro, ma qual è la sua composizione spettrale totale: come assorbe e riflette la luce attraverso il continuum dello spettro visibile. Il marchio più caratteristico di un colore è quindi una linea sinuosa che traccia la variazione di intensità della luce riflessa man mano che varia la lunghezza d’onda.12 Il marchio del bianco puro (ma non della luce solare) è una linea diritta: tutte le lunghezze d’onda sono completamente riflesse. Il nero si caratterizza nello stesso modo, ma ha intensità zero invece che la massima: ogni lunghezza d’onda è negata. Che cos’è allora il grigio? Assieme al bianco e al nero, il grigio è a volte classificato come un ossimorico "colore acromatico"... si potrebbe dire che il grigio non ha "colore" in quanto tale, ma è più un intermediario tra chiaro e scuro; lo si percepisce quando tutte le lunghezze d’onda vengono parzialmente assorbite, più o meno nelle stesse proporzioni, dalla luce bianca; è, se si vuole, luce bianca col volume abbassato.
Anche il marrone è difficile: è situato sulla frontiera tra un colore vero e uno acromatico... un colore "sporco", affine al grigio; in effetti il marrone è un tipo di grigio con una tendenza verso il giallo o l’arancio. Una superficie marrone assorbe tutte le lunghezze d’onda fino a un certo punto, ma quelle del giallo e dell’arancio un po’ meno delle altre. In altre parole, il marrone è un giallo o un arancio con scarsa luminosità, la sensazione generata quando l’occhio è colpito dalla luce a bassa intensità di queste lunghezze d’onda. È curioso dal punto di vista fisiologico e linguistico che, mentre si può continuare a classificare come tali azzurri, verdi e rossi di bassa intensità, si avverta la necessità di un nuovo termine di base (nel senso di Berlin e Kay) per il giallo a bassa intensità.
Il marrone e il grigio non figurano nel diagramma CIE perché questo non mostra i colori prodotti dalle variazioni di luminosità. Per comprendere anch’essi, sarebbe necessario un gran mucchio di diagrammi CIE, in cui il centro bianco diventa progressivamente più grigio, e al contempo la parte giallo-arancio del diagramma diventa via via più marrone.
Ciò dimostra che l’universo dei colori – quello che si può vedere nei cataloghi dei colorifìci – è di fatto tridimensionale. Il diagramma CIE mostra solo due dei tre parametri cromatici... due "dimensioni" riprodotte su una superficie piana. Uno di questi è quanto si intende genericamente con "colore": in senso stretto, è la lunghezza d’onda dominante che lo identifica, permettendo di definire un colore come fondamentalmente rosso, verde o quant’altro. In questo senso, il "colore" del marrone è giallo o arancio, mentre il grigio non ha colore – nessuna lunghezza d’onda dominante – e può quindi essere considerato acromatico. Nel diagramma CIE il colore varia attorno al perimetro della curva: i porpora giacciono lungo la parte inferiore, tra il violetto nell’angolo in basso a sinistra, e il rosso in basso a destra. Tale diagramma fa saltare agli occhi la stranezza del fatto che nella maggior parte delle lingue europee non esista ancora un termine universalmente accettato per definire la tonalità tra il giallo e il verde, o quella tra il verde e l’azzurro, benché esse occupino zone notevoli del bordo.
Il secondo parametro cromatico del diagramma CIE è la saturazione, chiamata a volte purezza o intensità (termine potenzialmente fuorviante): si riferisce al grado in cui il bianco (o il nero, o il grigio) è mescolato con un colore puro. Grosso modo, la saturazione di un colore varia lungo la linea tra il colore "puro" alla periferia del diagramma e la zona di bianco puro al centro. Si noti, tra parentesi, quanto è vasta la zona bianca: vi è un’ampia gamma di bianchi. Il vero bianco è definito nel diagramma come "di uguale energia", ottenuto da una miscela di pari quantità dei tre primari che si trovano alle estremità: luce rossa con lunghezza d’onda di 770 nanometri nell’angolo in basso a destra, luce violetta di 380 nanometri in basso a sinistra, e luce verde di 520 nanometri nel punto più alto della curva. La luce solare si colloca leggermente spostata verso il lato giallo del bianco vero e proprio.
Dal diagramma CIE è omesso il terzo parametro del colore: la luminosità che può essere grosso modo considerata come la sfumatura di grigio generata dal colore in una fotografia in bianco e nero. Entro l’inizio del XIX secolo, i teorici del colore stavano già cominciando a rendersi conto che le ruote cromatiche piatte danno solo un’immagine parziale del mondo dei colori: una semplice fetta del panorama. Alcuni di essi allargarono le proprie ruote a comprendere i colori terziari, che si ottengono mescolando in proporzioni diverse i tre primari (fig. 2.4b). Il pittore romantico tedesco e teorico del colore Philipp Otto Runge, si spinse oltre, presentando una sfera cromatica nel suo libro Farben-Kugel (Sfera dei colori, 1810), che più o meno teneva conto delle variazioni di luminosità dei colori dello spettro newtoniano. I colori saturi primari e secondari sono collocati attorno all’equatore della sfera. Verso un polo, i colori diventano via via più chiari, verso l’altro più scuri. Così un polo è bianco puro, uno completamente nero.
Tuttavia neppure questo può bastare, perché non comprende in modo adeguato le variazioni indipendenti di saturazione e luminosità: in nessun punto della sfera compare il grigio; la sua superficie è sempre bidimensionale, mentre in realtà l’universo dei colori è tridimensionale. All’inizio del Novecento l’insegnante e pittore americano Albert Munsell fece uno dei primi tentativi di codificarlo: sperava di trovare uno schema che gli permettesse di classificare i colori percepiti in natura per poterli riprodurre fedelmente sulla tela nel suo atelier. La sua prima scala cromatica fu pubblicata nel 1905, e poi ampliata nell’Atlas of the Munsell Color System (Atlante del sistema cromatico di Munsell, 1915) (tav. 2.3). Lo schema completo di Munsell è in qualche modo simile a un diagramma CIE in 3D, a parte il fatto che il profilo è più simile a un ragno policromo che a una lingua. Come nel diagramma CIE, i colori mutano attorno al perimetro mentre la saturazione varia lungo linee radiali verso il bianco centrale; la luminosità cambia in direzione verticale, come nell’ipotetico mucchio di diagrammi CIE, cosicché il punto centrale va dal nero puro al bianco puro passando per il grigio.
Nel 1929 Munsell aggiornò di nuovo la sua scala di notazione cromatica, dividendo lo spazio cromatico in blocchi discreti che dovevano procedere in qualsiasi direzione per passi percettivi uguali. Accurati test psicologici vennero condotti dalla Optical Society of America per verificare che l’universo cromatico di Munsell fosse il più equilibrato possibile.
La scala cromatica di Munsell, sotto forma di regoli o dischetti di plastica colorata, è stata ampiamente usata da psicologi e antropologi che conducevano ricerche sulla percezione dei colori; ma il suo valore in questo campo rimane limitato dal tentativo d’imporre una codificazione scientifica al concetto di colore, che inevitabilmente porta con sé un notevole bagaglio culturale. John Gage riferisce con una certa soddisfazione di antropologi svedesi approdati su un’isola della Polinesia nel 1971, pronti a sottoporre gli indigeni a un test con i regoli Munsell, solo per ricevere la risposta scoraggiante: «Qui non parliamo molto di colore». Il sociologo M. Sahlins si espresse molto chiaramente a questo proposito nel 1976: «... una teoria semiotica di universali cromatici deve considerare per "significato" esattamente ciò che i colori vogliono dire nelle società umane. Non corrispondono necessariamente ai regoli di Munsell». 13
Per la stessa ragione, un colore non corrisponde necessariamente all’arcobaleno di Newton, né (come suggerisce l’Oxford English Dictionary) alla capacità di un materiale di assorbire la luce, né a una sensazione prodotta dalla stimolazione del nervo ottico. È tutte queste cose insieme, ma per gli artisti queste sono pure astrazioni: i pittori hanno bisogno che il colore sia incorporato nella materia, devono poterlo comprare e macchiarsene i camici. Questa è la conclusione, e non vorrei che venisse sepolta (come a volte è accaduto) tra ruote, globi e diagrammi multicolori. I pittori hanno bisogno di tinte; il colore è il loro mezzo di espressione e di comunicazione, ma per rendere visibili i loro sogni hanno bisogno di materia. Vediamo ora come se la sono procurata.