All’ombra dei maestri
A Venezia Paolo Veronese fu l’erede indiscusso di Tiziano per quanto riguarda il modo di trattare il colore. Nato, come dice il soprannome, a Verona, lavorò a Venezia dal 1555 e usò senza alcuna esitazione tutti i colori che la città aveva da offrire: oltremare, azzurrite, smaltino, indaco, lacca rossa di cocciniglia, vermiglione, minio, giallo di piombo/stagno, orpimento, realgar, resinato di rame. In alcune delle sue opere, come l’Adorazione dei Magi (tav. 6.2) e la Cena in casa di Levi, colpisce particolarmente un verde brillante ottenuto mescolando tre pigmenti applicati in due strati; questa tinta divenne un marchio di fabbrica così indelebile, che un pigmento sintetico verde del XVIII secolo era noto col suo nome oltre che in Italia, anche in Francia come vert Paul Véronese. Egli abbandonò in gran parte le sofisticate tecniche di velatura che i precedenti pittori veneziani avevano prediletto, per mescolare invece i colori direttamente sulla tavolozza. Come Tiziano, usava contrasti complementari per rendere i colori più vibranti e non permise mai che fossero sopraffatti dal pesante chiaroscuro che stava acquistando popolarità fra i suoi contemporanei. Se Veronese fu toccato dal Manierismo, questo era di un tipo decisamente veneziano, poiché egli non usa alcune delle deformazioni anatomiche caratteristiche dell’arte dell’Italia centrale dell’epoca.
Tintoretto fu meno misurato. Fedele alla moda del tempo, dipinse per attirare l’attenzione, anche a spese della coerenza; opere come il Miracolo dello schiavo liberato (1548) e San Giorgio e il drago (1555 ca.; tav. 6.3) sono pervase di melodramma delirante, con colori spesso esagerati. Nell’Annunciazione (1583-87) la prospettiva esasperata è torturata senza pietà, mentre una torma di cherubini si riversa da una finestra con effetto quasi comico; i colori forti e stridenti per Tintoretto erano semplicemente uno strumento destinato a eccitare e strabiliare l’osservatore. Non sorprende che il suo stile concitato fosse visto come una mancanza di accuratezza tecnica da accademici conservatori come il Vasari, il quale giudica le scene rappresentate «così crude che le sue pennellate mostrano più forza che giudizio, e sembrano essere state date a caso».
Parecchie opere di Tintoretto si riconoscono all’istante per i loro toni cupi e pesanti, nelle quali figure e oggetti spiccano in lumeggiature baluginanti, quasi spettrali. Egli cercava l’unità tonale usando fondi scuri marrone-rossiccio, ancora più profondi di quelli su cui Leonardo lavorava il suo sfumato. Caravaggio usò la stessa tecnica per avvolgere i suoi soggetti in ombre vellutate. Alcuni dei fondi di Tintoretto mostrano miscele così complesse che si è costretti a supporre che il pittore li eseguisse semplicemente grattando la tavolozza; come Tiziano, usava tutti i pigmenti che riusciva a reperire, fondendoli in combinazioni insolite per "spezzare" i colori.
Scelte di colore poco ortodosse erano considerate da altri manieristi come un modo di lasciare la propria firma. La produzione degli ultimi anni di Michelangelo lo fa a volte ricomprendere tra questi: non c’è dubbio che egli fosse molto attento al colore, ma il suo uso della tecnica non naturalistica del cangiantismo ne testimonia indifferenza verso un rigido realismo.
Nessuno però incarna graficamente gli strani eccessi del Manierismo più del pittore cretese Domenikos Theotokópulos, la cui nazionalità gli valse il soprannome di El Greco (1541-1614). Dopo aver studiato presso Tiziano a Venezia, El Greco si spostò a Toledo, la città santa della Spagna, dove la Chiesa gli affidò molti incarichi. La sua coloritura non naturalistica, unita ad allarmanti distorsioni dell’anatomia, era portata a tali estremi che resta un mistero come possa avergli valso approvazione critica, perfino nel clima artistico spregiudicato e ribelle del tardo XVI secolo. Che cosa pensavano i suoi contemporanei di quelle figure spettrali, vestite di abiti blu robbia e color ambra, che si dibattevano in un mondo di luci terrificanti? I paesaggi di El Greco, in particolar modo le sue straordinarie vedute di Toledo, non apparirebbero fuori posto accanto alle colline di Cézanne; in effetti, fu solo quando gli stili del XX secolo avevano rieducato l’occhio, che le sue opere vennero "riscoperte", dopo essere state a lungo considerate incomprensibili. È sintomatico che gli orfisti Robert e Sonia Delaunay, che negli anni attorno al 1910 sperimentarono la pittura astratta con colori brillanti, guardassero a lui come a un predecessore.